PrEP ed ART combinate azzerano il rischio trasmissione in coppie sierodiscordanti

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

Una strategia terapeutica che combina la profilassi pre-esposizione (PrEP) e la terapia antiretrovirale (ART) in coppie eterosessuali in cui uno solo dei partner è HIV-positivo ha mostrato di poter azzerare quasi del tutto il rischio di trasmissione del virus al partner HIV-negativo. Inoltre, e questo è un aspetto cruciale, protegge dalla trasmissione non solo all’interno della coppia, ma anche in caso di rapporti al di fuori di essa.

È quanto emerge dallo studio Partners Demonstration Project, condotto in Kenya ed Uganda dagli stessi ricercatori dello studio Partners sulla PrEP (che già aveva dimostrato l’efficacia della profilassi pre-esposizione in coppie sierodiscordanti), ma coinvolgendo coppie che non avevano preso parte allo studio precedente.

Benché sia la PrEP che la ART abbiano mostrato di ridurre sensibilmente il rischio di trasmissione dell’HIV, talora l’assunzione di farmaci viene rinviata, oppure non è costante. Questa strategia combinata sfrutta l’azione della PrEP come una sorta di ‘ponte’, finché non è raggiunta la completa soppressione virale. Al partner HIV-negativo viene somministrata la PrEP fintanto che quello HIV-positivo non inizia la ART e durante i primi sei mesi di terapia.

Per individuare più accuratamente i soggetti maggiormente a rischio di trasmissione, è stato elaborato un ‘punteggio di rischio’, calcolato valutando fattori di rischio come giovane età, numero non elevato di figli, mancanza di circoncisione per l’uomo, convivenza anziché matrimonio, tasso di rapporti non protetti recentemente avuti e carica virale alta al baseline.

Fino ad ora, circa la metà delle 1013 coppie arruolate nello studio hanno assunto soltanto la PrEP, un quarto sia PrEP che ART, una su sei soltanto la ART, mentre una su dieci non assume né l’una né l’altra. Dagli esami ematici, l’aderenza a entrambi i trattamenti appare buona.

L’incidenza di nuove diagnosi di HIV in questo gruppo è stata messa a confronto con quella rilevata nel braccio di controllo con placebo dello studio Partners.

Sulla base di quei dati, ci si sarebbe aspettati che nelle coppie prese in considerazione dallo studio si verificassero circa 40 nuove infezioni, equivalenti a un tasso annuo di incidenza di 5,2%. Le infezioni effettivamente avvenute sono state invece solo due, equivalenti a un’incidenza annua dello 0,2%. Ed entrambe le infezioni si sono avute in individui a cui la PrEP era stata prescritta, ma che l’avevano interrotta.

La riduzione del tasso di infezioni è del 96%, un dato statisticamente molto significativo. Si tratta, è vero, di una riduzione simile a quella già osservata nello studio HPTN 052, ma quello studio prendeva in considerazione soltanto gli eventi di trasmissione al partner principale, mentre questo considera anche gli eventi di trasmissione a individui al di fuori della coppia.

Gli autori ritengono che sia opportuno raccomandare questa strategia combinata a tutte le coppie sierodiscordanti, anche perché potrebbero beneficiarne anche altri soggetti a rischio di infezione, come gli MSM e le donne single.

Alla Conferenza si è parlato anche di come l’impiego della PrEP sia in aumento a San Francisco, una delle comunità dove questa nuova forma di prevenzione è stata adottata da più tempo. Le persone che hanno assunto la PrEP lo scorso anno hanno superato le 5000; e tuttavia restano appena un terzo degli individui ad alto rischio di contrarre l’HIV in quella comunità. Se invece la PrEP venisse assunta dal 95% degli individui a rischio, secondo i ricercatori le infezioni potrebbero calare del 70%.

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FONTE: aidsmap.com

 

Nuovo inibitore della maturazione si mostra promettente

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Un inibitore della maturazione dell’HIV di seconda generazione denominato BMS-955176 ha mostrato di avere un buon profilo di sicurezza e un’elevata efficacia in un piccolo studio proof-of-concept di fase 2a.

La terapia antiretrovirale di combinazione consiste in un insieme di farmaci che colpiscono l’HIV in diverse fasi del suo ciclo di vita. Nessuno dei principi attivi attualmente approvati, tuttavia, agisce sulle fasi di assemblaggio delle componenti virali, maturazione e fuoriuscita dalla cellula ospite. Per questo delle nuove classi di farmaci potrebbero essere di grande aiuto per i pazienti che hanno alle spalle dei fallimenti terapeutici e hanno sviluppato farmacoresistenze estese.

Un inibitore della maturazione noto come bevirimat aveva già dato prova di attività antivirale in studi precedenti, ma erano insorte difficoltà a livello di formulazione: oltre la metà dei soggetti che l’hanno sperimentato avevano ceppi virali poco suscettibili alla sua azione a causa di mutazioni spontanee nel gene Gag. Il BMS-955176 è invece un inibitore della maturazione di seconda generazione che sembra superare questo ostacolo.

Il BMS-955176 si è dimostrato notevolmente più efficace del bevirimat, dando prova della stessa attività antivirale con i ceppi di HIV di fenotipo selvaggio e quelli con polimorfismo del Gag al baseline. È inoltre risultato generalmente sicuro e ben tollerato in tutti i dosaggi sperimentati. Nei prossimi mesi è previsto l’avvio dello studio di fase 2b.

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PrEP: con i farmaci preventivi le infezioni calano dell’86%

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CROI 2015La notizia più entusiasmante proveniente da questa edizione del CROI riguarda la profilassi pre-esposizione (PrEP), ossia l’assunzione di antiretrovirali da parte di persone HIV-negative a scopi preventivi.

Due studi sulla PrEP condotti su uomini omosessuali e donne transessuali hanno dimostrato che, quando è possibile assumere la PrEP, il tasso di infezione da HIV diminuisce dell’86%. Si tratta dei più elevati livelli di efficacia mai registrati fino ad adesso, senza contare che sono superiori a quelli ottenuti con la maggior parte degli altri interventi di prevenzione. E il dato straordinario è che due studi indipendenti l’uno dall’altro – nei quali la PrEP è stata somministrata con modalità molto differenti tra loro – hanno riscontrato gli stessi identici livelli di efficacia.

Lo studio PROUD è stato condotto in Inghilterra, mentre lo studio IPERGAY in Francia e Canada. Per entrambi sono stati arruolati uomini che fanno sesso con uomini (MSM) e donne transessuali ad alto rischio HIV. I partecipanti infatti avevano multipli partner sessuali; utilizzavano il preservativo in modo incostante o irregolare; presentavano alti tassi di infezioni a trasmissione sessuale; molti avevano già avuto bisogno di ricorrere alla profilassi post-esposizione (PEP) in passato; e infine, facevano diffusamente uso di droghe. Generalmente si trattava di individui ben istruiti e con un’occupazione a tempo pieno.

Tutti e due erano stati concepiti come studi pilota che aprissero la strada a sperimentazioni più ampie in futuro. Il fatto che entrambi abbiano dimostrato livelli di efficacia tanto elevati e statisticamente significativi su poche centinaia di partecipanti non solo testimonia l’efficacia preventiva della PrEP, ma rivela anche quanto sia alto il tasso di infezione in determinati gruppi di maschi omosessuali nei paesi occidentali.

I due studi presentavano però anche rilevanti differenze.

Nello studio PROUD, quello britannico, i partecipanti dovevano assumere giornalmente un combinato a base di tenofovir ed emtricitabina (Truvada); per il gruppo di controllo era invece prevista non già l’assunzione di un placebo, ma un inizio differito (di un anno) dell’assunzione dello stesso combinato.

Lo studio IPERGAY, invece, si proponeva di testare – per la prima volta – la fattibilità della cosiddetta PrEP ‘intermittente’. Ai partecipanti è stato detto di assumere il farmaco solo prima e dopo l’effettivo rapporto sessuale: una dose nelle 24 ore precedenti il rapporto programmato e – se esso aveva effettivamente luogo – altre due dosi nei due giorni seguenti. È un approccio che senz’altro facilita l’aderenza terapeutica, senza contare che riduce i costi della terapia e limita gli effetti collaterali. Anche per questa sperimentazione è stato impiegato il Truvada; al gruppo di controllo è stato somministrato un placebo.

Lo studio PROUD ha registrato un tasso di nuove infezioni dell’1,3% all’anno nel gruppo che assumeva la PrEP, contro l’8,9% nel gruppo con inizio differito. Una differenza che, in termini percentuali, corrisponde a un’efficacia dell’86%.

Nello studio IPERGAY, invece, le nuove infezioni nel gruppo che riceveva la PrEP si sono fermate allo 0,9%, contro il 6,8% nel gruppo di controllo: anche qui, in termini percentuali la differenza è dell’86%.

Nei due studi, tra gli individui randomizzati per ricevere la PrEP, quelli che hanno contratto l’HIV sono complessivamente cinque. Si ritiene però che non abbiano effettivamente assunto i farmaci: quattro hanno smesso di presentarsi alle visite di controllo o restituivano i flaconi inutilizzati, mentre per quanto riguarda il quinto individuo, si pensa che abbia contratto il virus nel periodo precedente all’inizio dell’assunzione della PrEP.

Da entrambe le sperimentazioni sono emersi dati confortanti anche in termini di insorgenza di effetti collaterali e farmaco-resistenze nonché delle eventuali ripercussioni sul comportamento sessuale.

L’aderenza terapeutica è risultata più che buona in entrambi gli studi, malgrado le notevoli differenze nella somministrazione dei farmaci in termini di tempi e dosaggi. Lo studio PROUD mirava a riprodurre le condizioni reali di un paziente in Inghilterra, e ha dimostrato che i timori che l’aderenza sia scarsa sono da considerarsi infondati. IPERGAY invece mostra che gli MSM possono agevolmente assumere la PrEP in un modo compatibile con il loro stile di vita, massimizzando la propria sicurezza.

Resoconto completo sui risultati dello studio PROUD su aidsmap.com

FONTE: aidsmap.com

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Terapia triplice più efficace nel prevenire trasmissione da madre a figlio

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

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Somministrando alle donne in gravidanza una terapia antiretrovirale basata su una combinazione di tre farmaci, così come raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), si ottengono tassi sensibilmente più bassi di trasmissione dell’HIV da madre a figlio: è quanto emerge da uno studio randomizzato condotto in sette diversi paesi. Lo studio, denominato PROMISE, si è svolto nell’Africa sub-sahariana ed in India.

Per lo studio sono state arruolate 3529 donne in stato di gravidanza, in stato di salute generalmente buono, che non sarebbero altrimenti state considerate eleggibili per ricevere la terapia nei rispettivi paesi. Le partecipanti presentavano una conta mediana dei CD4 di 530 cellule/mm3 ed erano alla 26° settimana mediana di gravidanza.

Un gruppo è stato randomizzato per ricevere quella che l’OMS definisce ‘opzione A’: zidovudina a partire dalla 14° settimana di gestazione più una singola dose di nevirapina al momento del parto. Per i 14 giorni successivi, alle pazienti è stata inoltre somministrata una terapia a base di tenofovir e emtricitabina per ridurre al minimo il rischio che sviluppassero una resistenza alla nevirapina.

Un altro gruppo di partecipanti è stato invece randomizzato per ricevere l’‘opzione B’, ossia una terapia triplice da assumere a partire dalla 14° settimana di gestazione fino a tutto il periodo dell’allattamento. Il regime era a base di inibitori della proteasi come lopinavir e ritonavir. A seconda della randomizzazione, come farmaci di backbone sono stati impiegati o lamivudina e zidovudina, o tenofovir e emtricitabina. (Quando lo studio era già stato avviato, l’OMS ha aggiornato le sue linee guida e raccomanda adesso un regime a base di efavirenz come opzione B).

Il tasso di trasmissione è risultato basso in entrambi i gruppi, ma con la terapia triplice calava ulteriormente, e in maniera sensibile: 0,6% contro 1,8%.

In termini di sicurezza, la somministrazione di terapia triplice è risultata associata a un rischio più elevato di eventi avversi di grado moderato oppure di esiti complicati, per esempio parti prematuri o bambini nati sottopeso. Non si sono invece rilevate differenze in termini di eventi di maggiore gravità.

Resoconto completo su aidsmap.com

FONTE: aidsmap.com

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Nuovo farmaco mostra alto livello di protezione: “Ottimisti, ma bisogna essere cauti”

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Alcuni ricercatori del The Scripps Research Institute hanno elaborato un farmaco che promette di bloccare l’infezione delle cellule del sistema immunitario da parte dell’HIV, il virus alla base dell’AIDS. I ricercatori sostengono che grazie al nuovo metodo, che si “maschera” fingendosi i due recettori a cui si lega l’HIV, si potrebbe elaborare un vaccino, un farmaco che possa impedire l’infezione.

Pubblicata sulla rivista Nature, questa ricerca ha mostrato buoni risultati per cui gli scienziati, guidati dal Prof. Michael Farzan, professore per le malattie infettive presso lo Scripps Research Institute, sono generalmente ottimisti: “E’ efficace al 100%. Non ci sono dubbi che sia l’inibitore di ingresso di più larga portata che ci sia”. Gli fa eco Anthony Fauci, direttore presso il National Institute of Allergy and Infectious Diseases, che ha finanziato questo studio: “Questa innovativa ricerca pone le basi per un passo avanti verso due importanti obiettivi: raggiungere una protezione a lungo termine per l’infezione da HIV e porre l’HIV in fase di remissione nelle persone infette”.

Per testare questo farmaco sperimentale, gli scienziati hanno ricreato una proteina unendo insieme gli elementi dei due ricettori che si fondono con l’HIV e da cui si propaga poi l’infezione. Per assicurarsi che la proteina potesse essere realmente efficace, hanno somministrato alle quattro scimmie usate in laboratorio una dose del virus HIV quadruplicata rispetto a quella necessaria per infettare il gruppo di controllo. La proteina creata, chiamata eCD4-Ig, è riuscita a proteggere con successo le scimmie per 40 settimane.

Il nuovo approccio si basa sulla premessa che l’HIV “colpisca” una sola volta. Questa nuova proteina si mimetizza dai ricettori che vengono infettati dal virus; in questo modo, l’HIV infetta le cellule “finte” e l’infezione viene ingabbiata all’interno della proteina impedendo che si propaghi nel resto del sistema immunitario. Una soluzione che, seppur sia ancora sperimentale e quindi lontana dall’effettivo uso pratico, è stata ben accolta anche dai ricercatori non coinvolti nello studio, come Nancy Haigwood, ricercatrice dell’HIV presso l’Oregon Health and Science University: “E’ molto astuto e molto potente” si legge sulle pagine del The Wall Street Journal. E si spinge fino a dire che “sarà molto meglio di qualsiasi vaccino all’orizzonte”.

Ottimista sì, ma aspettiamo prima di lanciare falsi successi: “Diversamente dagli anticorpi, che non riescono a neutralizzare gran parte dei ceppi dell’HIV-1, la nostra proteina è stata efficace contro ogni ceppo testato aumentando le possibilità che possa offrire un’efficace alternativa come vaccino per l’HIV” sostiene Farzan, come riportato dall’Agenzia di Stampa Francese (AFP), che però sottolinea che “ovviamente, abbiamo bisogno di ulteriori studi di sicurezza sia sulle scimmie che sugli esseri umani”. Un conto è vedere le scimmie protette con successo e un altro è quello di confermarne la bontà sugli esseri umani. Invita alla cautela anche il Dott. Shaun Griffin, direttore degli Affari Esterni presso il Terrence Higgins Trust: “Si tratta un nuovo approccio esaltante, ma finché il vaccino non è stato provato sugli esseri umani, non c’è modo di sapere quanto possa essere efficace. Sebbene sia stato dimostrato che il vaccino è efficace sulle scimmie, l’HIV è un virus molto complesso, di cui stiamo ancora iniziando a conoscere le sue sfaccettature”.

La ricerca condotta dal Prof. Farzan si basa su uno studio del Prof. Philip Johson del 2009, che ha suggerito che si debbano sperimentare nuove modalità di cura e prevenzione dell’AIDS. Lo stesso Johnson, alla luce di questi risultati, ha commentato: “Sembra essere una molecole straordinariamente potente. Convalida ancora di più l’idea secondo cui dovremmo valutare metodi alternativi per colpire l’HIV. Per me, i risultati sui primati non-umani sono straordinari”.

FONTE: it.ibtimes.com

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Ma perché gli italiani non fanno il test Hiv?

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Ogni anno 4 mila persone ricevono una diagnosi di Hiv. Ma almeno 25 mila hanno contratto l’infezione e non lo sanno contribuendo così ad alimentare la diffusione del virus. Ma cos’è che frena gli italiani dal sottoporsi a un esame così semplice?

Da circa dieci anni, in Italia non varia il numero delle nuove diagnosi di Hiv: ogni anno sono circa 4.000. Nel 2013, per l’esattezza, a 3.806 persone è stata diagnosticata l’infezione. Oltre la metà dei casi segnalati era già in fase avanzata di malattia. Il 57,6% aveva cioè un numero di linfociti CD4 (le cellule del sistema immunitario che il virus aggredisce) inferiore a 350 cell/μL: dato che indica che il virus ha già prodotto danni consistenti al sistema immunitario.

Malati fino ad allora inconsapevoli.

Secondo i dati dell’Istituto Superiore di Sanità sono circa 120.000 le persone che nel nostro Paese convivono con l’Hiv, ma circa il 20% non lo sa. E così non solo possono trasmettere l’infezione ai partner attraverso rapporti non protetti (l’83,9% di tutte le nuove diagnosi è attribuibile a rapporti sessuali non protetti), ma compromettono il proprio stato di salute. La diagnosi precoce, infatti, è fondamentale perché oggi l’infezione da Hiv/Aids si può trattare, ma prima si comincia la terapia farmacologica meglio è. Il ritardo della diagnosi, infatti, riduce l’efficacia dei trattamenti e aumenta la probabilità della progressione clinica dell’infezione.
Un test per tutti

Per questo bisognerebbe incentivare il ricorso al test dell’Hiv. Si chiama Elisa (Enzime Linked Immuno Sorbent Assay), è gratuito e rileva la presenza nel sangue di anticorpi specifici, che il nostro sistema immunitario sviluppa se è entrato in contatto col virus. «Dovrebbero eseguire il test tutte le persone sessualmente attive», spiega Adriano Lazzarin, direttore del Dipartimento di malattie infettive al San Raffaele di Milano. «In particolare, è fortemente raccomandato all’inizio di una nuova relazione e prima della gravidanza e, in ogni caso, se si pensa che i rapporti sessuali avuti, senza preservativo, siano da considerare a rischio».

Tra coloro che nel 2013 hanno scoperto di convivere con l’Hiv, i più (41,9%) hanno eseguito il test per la presenza di sintomi che facevano sospettare l’infezione o l’Aids. Il 27,6% invece si è sottoposto al test in seguito a un comportamento a rischio (non specificato) e il 15,1% per controlli medici dovuti ad altri percorsi clinici.

FONTE: healthdesk.it e  Poloinformativo HIV AIDS.

Scoperta causa disturbi neurocognitivi associati al virus

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Scoperto il meccanismo alla base dell’insorgenza dei Disturbi neurocognitivi associati all’Hiv (Hand), un problema che causa disorientamento cognitivo, lieve o grave, nelle persone affette dall’Hiv.

Un gruppo di ricercatori della San Diego School of Medicine della University of California ha fatto luce su un problema tanto insidioso quanto sottovalutato e ha trovato una possibile via per combatterlo. Mentre infatti le terapie antiretrovirali sono riuscite a migliorare la vita delle persone sieropositive, poco o nulla e’ stato fatto contro l’Hand.

I risultati del nuovo studio, pubblicati sul Journal of Neuroscience, aprono la strada allo sviluppo di nuove terapie per bloccare o ridurre il declino cognitivo a causa di Hand. I ricercatori hanno concentrato l’attenzione sul ruolo della proteina Tat nell’Hiv nel processo di “smaltimento” nei neuroni, chiamato autofagia.

“I neuroni producono un sacco di proteine come parte delle loro funzioni normali – ha spiegato Eliezer Masliah, che ha coordinato lo studio – e alcune di esse sono danneggiate e hanno bisogno di essere eliminate. L’autofagia agisce come un tritarifiuti e rimuove e distrugge le proteine danneggiate”. I ricercatori hanno pero’ scoperto che nei pazienti con l’Hiv la proteina Tat “dirotta” il processo di smaltimento, interrompendolo e quindi causando l’accumulo di proteine danneggiate e la morte dei neuroni.

I ricercatori sono riusciti a promuovere l’autofagia utilizzando la rapamicina, un farmaco anti-cancro, su test condotti sui topi. Gli esperimenti hanno prodotto risultati positivi. “Abbiamo scoperto che la rapamicina ha ridotto l’incidenza della neurodegenerazione nei topi e nei modelli cellulari”, hanno concluso i ricercatori.

FONTE: agi.it

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Secondo Roberto Gallo è possibile trovare un vaccino

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Intervenendo ai lavori del meeting dell’Istituto Nazionale Tumori CRO di Aviano, Robert Gallo, direttore dell’Institute of Human Virology alla University of Maryland School of Medicine di Baltimora, co-scopritore del retrovirus HIV, ha spiegato di avere identificato assieme ai suoi collaboratori nuove modalità per superare punti critici che consentirebbero di sviluppare un vaccino contro l’HIV più efficace di quelli sino a oggi disponibili. Che, sempre secondo Gallo, che in premessa si è soffermato sul rapporto storico tra virus e tumori virus-correlati, avrebbero dimostrato di non essere protettivi in maniera adeguata. «La ricerca – ha detto – non può basarsi sui percorsi tradizionali che ci hanno consentito di fare importanti scoperte perché questo non è un virus ma un retrovirus, le cui differenze rispetto al primo sono importanti».

Gallo, nella genesi storica della lotta all’Aids e più in generale del rapporto tra virus e tumori, ha detto che fino alla metà degli anni Ottanta era opinione condivisa dalla comunità scientifica che non vi fosse alcun rapporto di causa effetto tra le due cose, fatto che venne smentito dall’epidemiologia soltanto qualche anno dopo quando almeno il 20% delle neoplasie era riconducibile ai virus. Riportando di un suo incontro con Albert Sabin di una trentina di anni fa circa, il professore statunitense ha detto che il collega si sbilanciò spiegando che a suo dire un vaccino contro l’Aids non era fattibile. «Fino a oggi ha avuto ragione lui».

Gallo ha poi parlato del GVN – Global Virus Network, struttura di eccellenza a livello mondiale da lui fondata, focalizzando l’attenzione sulle pandemie per le quali vi è in questo momento una concreta minaccia di formazione di focolai: Influenza, SARS, MERS, Ebola, Dengue, Norovirus, Chikungunya, HIV e diversi virus relative alle encefaliti.

Quanto a Ebola ha escluso che possa propagarsi anche in Europa spiegando che il vaccino esiste. La risoluzione del problema nei Paesi del Terzo Mondo – ha concluso – è solo di natura clinico-infrastrutturale oltre che, ovviamente, economica.

 

FONTE: ecodibergamo.it

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Sovaldi: in India costerà solo un dollaro

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Sofosbuvir

Negato il brevetto all’azienda Usa che ne vuole 1.000: sarà prodotto come generico. In Italia dopo gli accordi il prezzo per pillola si aggirerà intorno agli 800 euro.

Costerà agli indiani un dollaro a pillola invece dei 1.000 che l’azienda produttrice, l’americana Gilead, fa pagare in alcuni Paesi occidentali: parliamo del sofosbuvir, il nuovo farmaco contro l’epatite C. L’ufficio brevetti di Delhi ha appena respinto la richiesta di registrazione del medicinale, presentata dall’azienda, perché non lo ritiene sufficientemente innovativo e potrà produrlo come generico (senza pagare royalties ).

Costi esorbitanti per le nuove terapie

È un’interessante trovata per ovviare ai costi esorbitanti delle nuove terapie, insopportabili per molti sistemi sanitari e soprattutto per il Sub-continente dove l’infezione da virus dell’epatite C è diffusissima (chiamano «Killead», da kill , uccidere, la Gilead perché ostacola, con la sua politica, l’accesso ai farmaci). La guerra dei prezzi è aperta, in tutto il mondo. Negli Usa due grandi assicurazioni private hanno stretto accordi con due produttori dei nuovi medicinali, ottenendo una riduzione dei costi e diventando, di fatto, «prescrittori», al posto dei medici. In Italia il sofosbuvir ha appena avuto il via libera, l’Aifa (l’agenzia italiana del farmaco) ha negoziato sconti sulle terapie che, per accordi con l’azienda, non sono stati resi pubblici (negli Usa il prezzo di un ciclo di terapia è di 84 mila dollari, da noi si parla di cifre attorno ai 40 mila euro) e il governo ha stanziato un miliardo di euro per queste terapie.

La situazione in Italia

In Italia, dunque, il prezzo per pillola sarebbe poco inferiore ai mille dollari, attorno agli 800 euro. Si potranno così curare, in due anni, 50 mila persone, ma i candidati alla terapia sarebbero all’incirca un milione e mezzo. Se si trattassero tutti, il sistema sanitario potrebbe andare in bancarotta. E allora si sono scelte alcune categorie di malati da curare: quelli con la patologia più grave. «Secondo logica – dice Antonio Craxì, epatologo a Palermo – sarebbe meglio privilegiare pazienti con malattia meno avanzata perché possono essere guariti e uscire dal circuito dell’assistenza». Aggiunge Carlo Federico Perno, virologo di Roma: «In un sistema a risorse limitate varrebbe la pena di chiederci se non spendiamo troppo per curare chi ha prospettive di guarigione basse e investiamo troppo poco per cure, come quella per l’epatite C, che hanno percentuali di successo di oltre il 95%». I pazienti italiani, al momento, sono in attesa: sono le Regioni che devono decidere come spendere i soldi. E c’è un po’ di confusione.

Nuovi farmaci in arrivo e i prezzi caleranno

Intanto l’Ema (l’agenzia europea del farmaco) ha registrato due nuove molecole che hanno il vantaggio di essere somministrabili per bocca e non richiedere il concomitante uso di interferone (un farmaco che ha effetti collaterali importanti). È una buona notizia per due motivi: si stanno perfezionando le terapie e l’arrivo di nuovi farmaci sul mercato farà abbassare i prezzi. Ma c’è un altro modo per risparmiare: mettere a punto terapie sempre più efficaci per pazienti difficili (con trapianto, con cirrosi, con infezioni da virus dell’Aids), e ridurre i tempi di trattamento, come ribadito all’ultimo congresso dell’Associazione americana per lo studio delle malattie di fegato. «È all’orizzonte una terapia “breve” – commenta Savino Bruno, epatologo di Milano – che prevede l’associazione di tre molecole in un’unica pillola da somministrare per bocca una volta al giorno. Che funziona contro i sei tipi diversi del virus C dell’epatite (quelli che abbiamo ora a disposizione sono efficaci solo su alcuni tipi, ndr )». La storia delle cure per l’epatite C assomiglia a quella per l’Aids. Là siamo riusciti a rendere cronica la malattia, qui possiamo guarire.

FONTE: corrieredellasera.it

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