HIV-HCV e grazoprevir/elbasvir

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

HIV-HCVLa popolazione dei pazienti con co-infezione HIV-HCV rappresenta da sempre un aspetto problematico nella terapia dell’HCV: quali sono i dati di maggiore interesse che emergono dalla sperimentazione delle nuove terapie, in particolare della combinazione grazoprevir/elbasvir, sui pazienti co-infetti?
I pazienti con co-infezione HIV-HCV sono considerati una popolazione ‘difficile’ per la presenza di comorbidità, che rendono più evidenti alcuni effetti collaterali legati al trattamento e per la relativa compromissione del sistema immunitario, che ha storicamente ridotto la possibilità di rispondere alle terapie convenzionali basate su interferone e ribavirina. La disponibilità di strategie terapeutiche senza interferone utilizzabili in pazienti con co-infezione HCV-HIV ha aperto nuovi orizzonti di cura e ha abbattuto un paradigma consolidato riguardo alla minore capacità di risposta al trattamento antivirale di questi pazienti. È stato dimostrato che utilizzando i farmaci antivirali ad azione diretta, i pazienti con co-infezione rispondono altrettanto bene rispetto ai pazienti con mono-infezione e che il risultato terapeutico è assicurato anche dopo il completamento di un ciclo di trattamento breve.
Ad esempio, nello studio di fase III C-EDGE, presentato durante il congresso EASL di Vienna, era compreso un braccio di arruolamento di pazienti con co-infezione HIV-HCV, trattati per 12 settimane con grazoprevir/elbasvir senza ribavirina: i risultati mostrano che il 95% dei 218 pazienti naive con co-infezione HCV-HIV da genotipo 1, 4 o 6, con o senza cirrosi, arruolati nello studio ha mostrato una risposta virologica sostenuta. Si tratta di percentuali di efficacia addirittura inimmaginabili fino a poco tempo fa, che rendono l’eradicazione di HCV una possibilità più che concreta in questa categoria di pazienti, da sempre ritenuti difficili. Il valore aggiunto della combinazione terapeutica grazoprevir/elbasvir sta nel fatto che in questo regime il carico di pillole da associare alla terapia antiretrovirale è limitato ad una sola compressa al giorno e che la ribavirina non è necessaria, e ciò costituisce un ulteriore vantaggio in quanto riduce ulteriormente il numero di compresse ma soprattutto esclude il rischio di anemizzazione che la somministrazione di ribavirina può implicare e, dunque, coniuga in maniera straordinaria tollerabilità ed efficacia. Un altro vantaggio importante per grazoprevir/elbasvir nei pazienti con co-infezione HIV-HCV è quello di avere limitate interazioni farmacologiche con i farmaci antiretrovirali anti-HIV utilizzati in tali pazienti, in particolare con il raltegravir.

Le persone con epatite C e insufficienza renale grave rappresentano una classe di pazienti definita ‘difficile’: perché la farmacocinetica di grazoprevir/elbasvir rende questa combinazione sicura e ben tollerata da questi pazienti?

I pazienti con insufficienza renale cronica e con infezione da virus dell’epatite C rappresentano una categoria molto peculiare, in quanto da una parte l’infezione da HCV può contribuire in modo più o meno esclusivo al danno renale, dall’altra un’insufficienza renale avanzata limita la possibilità di curare l’infezione da HCV. Inoltre, per i pazienti in lista d’attesa per trapianto di rene, la presenza di infezione attiva da HCV può costituire un limite all’accesso al trapianto, in quanto le modalità di selezione per questo intervento non sono uniformi e in alcuni Centri trapiantologici l’eradicazione di HCV costituisce un pre-requisito indispensabile per la collocazione in lista. Dunque, si tratta di una popolazione caratterizzata da una gestione del trattamento antivirale molto delicata nella quale la farmacocinetica e la sicurezza del regime terapeutico impiegato sono fondamentali. La combinazione grazoprevir/elbasvir possiede un profilo farmacocinetico favorevole in quanto i dati preclinici e studi di fase 1 hanno dimostrato che meno dell’1% dei due farmaci viene escreto per via renale e che la loro farmacocinetica non è modificata in maniera sostanziale in soggetti con malattia renale avanzata per la quale è richiesta la dialisi, rispetto a quanto si osserva nei soggetti con normale funzione renale. Inoltre, nemmeno la dialisi modifica il profilo farmacocinetico di grazoprevir/elbasvir in quanto l’estrazione dei due composti attraverso il procedimento dialitico è trascurabile. Questi dati rendono la combinazione grazoprevir/elbasvir utilizzabile sia in pazienti con malattia renale avanzata sia in pazienti già in trattamento dialitico e lo collocano in posizione strategica tra i regimi indirizzati all’eradicazione di HCV in questa categoria di pazienti, nei quali il trattamento antivirale risulta, al momento, privo di alternative rispetto all’interferone e alla ribavirina.

Durante il Congresso EASL in corso a Vienna sono stati presentati i dati dello studio C-SURFER in pazienti con insufficienza renale: i risultati confermano il profilo di grazoprevir/elbasvir nel trattamento di questi pazienti?
Uno dei risultati più interessanti che abbiamo osservato durante il Congresso è rappresentato dalla percentuale di eradicazione di HCV che la combinazione grazoprevir/elbasvir ha permesso di raggiungere in questa categoria di soggetti estremamente difficili, assicurando un profilo di sicurezza e tollerabilità del tutto simile a quello del paziente con normale funzione renale. Nello studio C-SURFER sono stati arruolati 235 pazienti con infezione da genotipo 1 e insufficienza renale grave, di grado 4 o 5 secondo la classificazione KDIGO. Il 76% di questi pazienti era in dialisi e va sottolineato che oltre il 90% era rappresentato da pazienti cirrotici e il 20% erano trapiantati di rene. Tutti sono stati trattati con grazoprevir/elbasvir senza ribavirina per 12 settimane riportando una percentuale di risposta antivirale completa, con eradicazione dell’infezione, nel 93,4% dei casi. Il tasso di discontinuazione della terapia è risultato molto basso, pari al 4% nei pazienti trattati e l’anemizzazione con valori di emoglobina inferiori a 8,5g/dl è stata osservata solo nel 5% dei casi. Questi risultati sono di assoluto rilievo e aprono una prospettiva di trattamento nuova ed estremamente promettente nella categoria dei pazienti con insufficienza renale cronica, anche dializzati e con malattia avanzata di fegato, oltre che nei trapiantati di rene.

Articolo di ISABELLA SERMONTI per LiberoQuotidiano

Fonte in lingua originale da Aidsmap

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HIV: Positivo ma non infettivo

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positivo hivGenova. L’Arcigay ospita un incontro su Hiv alla presenza di Giulio Maria Corbelli, attivista dell’associazione Plus Onlus, e di Antonio di Biagio, infettivologo all’Ospedale San Martino di Genova. L’appuntamento è martedì alle 20.30 al Teatro degli Zingari.

L’incontro, dal titolo “Positivo ma non infettivo – Il sesso con una persona con Hiv può essere sesso sicuro”, prende spunto da Partner, il lavoro di ricerca sulle coppie gay sierodiscordanti, ossia le coppie in cui uno solo dei due partner è Hiv positivo.
Alle testimonianze di Corbelli e Di Biagio seguirà una discussione, con tutte le persone partecipanti, per sensibilizzare su tematiche quali: il rischio di trasmettere l’infezione al partner se la carica virale è non rilevabile, quali blocchi psicologici o fisici esistono nella sessualità tra una persona con Hiv e una sieronegativa, come l’Hiv viene percepito nella comunità Lgbt e Msm (maschi che fanno sesso con maschi).

Fonte: genova24.it

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HIV/HCV : cannabis e resistenza insulinica

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resistenza insulinica

Il consumo di cannabis è associato ad un ridotto rischio di resistenza insulinica nelle persone con co-infezione HIV / HCV , secondo uno studio condotto da ricercatori francesi riportato nell’ edizione on line di Clinical Infectious Diseases.
I consumatori di cannabis – indipendentemente dalla frequenza di utilizzo – avevano il 60% in meno di probabilità di avere resistenza all’insulina (IR) rispetto ai non utilizzatori.

“Questo è il primo studio longitudinale che documenta il rapporto tra la riduzione del rischio di IR e cannabis in una popolazione particolarmente interessata dalla resistenza insulinica ” hanno commentato gli autori.
L’infezione da HCV è associata ad un aumentato rischio di insulino-resistenza e diabete di tipo 2. Una preoccupazione in più per la salute anche associata alla scarsa risposta alle terapie anti-HCV a base di interferone.

Molte persone con HCV sono co-infette con HIV, altra infezione associata a insulino-resistenza. Le cause possono includere gli effetti infiammatori dell’HIV non trattato , gli stili di vita, e disturbi del metabolismo lipidico causato da alcuni farmaci antiretrovirali.

Il consumo di cannabis è comune tra le persone con HIV e HCV. Può aumentare l’appetito (e aumento di peso), ma il suo uso è stato anche associato con obesità ridotta, e può quindi ridurre il rischio di insulino-resistenza.
Non si sa molto degli effetti del consumo di cannabis sul rischio di insulino-resistenza e diabete. I pochi studi che sono stati condotti hanno dimostrato che l’uso del farmaco è stato associato a un calo di insulina a digiuno, alla riduzione del rischio di resistenza all’insulina e a un minor rischio di diabete.

I ricercatori francesi dello studio ANRS CO13 HEPAVIH hanno monitorato 703 persone con HIV e HCV per 60 mesi per valutare se l’uso di cannabis ha ridotto il rischio di insulino-resistenza.

I partecipanti allo studio sono stati valutati al basale e ogni dodici mesi. Ad ogni visita hanno completato un questionario relativo alla frequenza del loro uso di cannabis nelle ultime quattro settimane – mai, a volte, spesso, tutti i giorni. I dati hanno tenuto conto anche di altre variabili associate con l’insulino-resistenza, definite come HOMA-IR> 2.77.
La maggior parte (n = 459) dei partecipanti erano uomini e l’età media era di 45 anni. Alla prima visita di studio, l’uso di cannabis recente è stata riportata dal 45% dei partecipanti, il 21% ha usato il farmaco di tanto in tanto, il 12% ha riportato un uso regolare e il 13% un consumo di cannabis quotidiano. Il valore di HOMA-IR medio al basale era 2,06.

Complessivamente, il 46% dei partecipanti aveva un valore HOMA-IR sopra 2.77 durante il follow-up.

Alla prima analisi degli autori hanno dimostrato che il consumo di cannabis a qualsiasi livello è stato associato ad un ridotto rischio di insulino-resistenza. Altri fattori associati ad un ridotto rischio di resistenza all’insulina includevano bere tre o più tazze di caffè al giorno, differenza di genere, e carica virale HIV rilevabile. La staduvina (d4T) era l’unico farmaco anti-HIV associato a insulino-resistenza. La cirrosi epatica ha aumentato il rischio di insulino-resistenza di circa il 50%, e l’obesità ha aumentato il rischio di quattro volte.

All’analisi multivariata, il rapporto tra l’uso di cannabis a qualsiasi livello e riduzione del rischio di insulino-resistenza (OR = 0.4; 95% CI, 0,2-06) è stato confermato dopo aver tenuto conto del genere, della carica virale HIV, dell’uso di stavudina e del consumo di caffè.
Le analisi di sensibilità hanno confermato l’associazione tra uso di cannabis e riduzione del rischio di insulino-resistenza.

I ricercatori hanno fatto notare che l’associazione tra l’uso di cannabis, l’obesità e la riduzione del rischio di insulino-resistenza è in linea con precedenti ricerche condotte negli Stati Uniti e con altri studi di laboratorio.

“Ci sono diverse terapie farmacologiche a base di cannabis che vengono utilizzate per indicazioni specifiche (ad esempio, riduzione dei sintomi della sclerosi multipla),” concludono gli autori. “I vantaggi di questi prodotti per i pazienti interessati da un aumento del rischio di insulino-resistenza e diabete devono essere valutati nella ricerca e nella pratica clinica.”

Reference

Carrieri MP et al. Cannabis use and reduced risk of insulin-resistance in HIV-HCV infected patients: a longitudinal analysis (ANRS HEPAVIH CO-13). Clin Infect Dis, online edition, 2015.

Fonte: Aidsmap

Traduzione e adattamento a cura di Poloinformativohiv
In caso di utilizzo si prega di citare la fonte

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Onu e droghe : l’ora della svolta

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drogheArticolo di Grazia Zuffa per la rubrica di Fuoriluogo su il Manifesto dell’11 marzo 2015.

Nell’aprile 2016 si svolgerà a New York l’Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), ma già questa settimana, alla riunione annuale della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) cominceranno i preparativi.
Per comprendere il contesto in cui si svolgerà Ungass 2016, bisogna risalire alla precedente Ungass del 1998. L’Assemblea Generale del 1998 segnò il culmine della retorica della “lotta alla droga”: con lo slogan: a drug free world, we can do it   e con la Dichiarazione Politica finale che fissava come obiettivi la “eliminazione della coca, del papavero da oppio e della cannabis entro il 2008”.
La Dichiarazione Politica diede la spinta ad una nuova escalation della war on drugs: si vedano i famigerati Plan Colombia e Plan Dignidad del Cile, che hanno causato la militarizzazione dei territori e lo sfollamento forzato di migliaia e migliaia di contadini dai campi avvelenati dalle fumigazioni. Inoltre, dalla fine degli anni novanta al 2006, esplode l’incarcerazione per reati di droga in Usa, la gran parte per semplice possesso.
Nel 2009, alla Cnd che aveva il compito di valutare i risultati della strategia uscita da New York dieci anni prima, la Dichiarazione Politica, lungi dal prendere atto di aver fallito l’obiettivo di “eliminare le droghe”, usò l’escamotage di rinnovarlo fino al 2019. Ancora nella stessa Dichiarazione, il termine “riduzione del danno” fu censurato e sostituito dall’ambiguo termine “servizi di supporto”: tanto che sedici stati membri (per lo più europei, ma non solo) firmarono una dichiarazione a margine chiarendo che i “servizi di supporto” erano da tradursi  in “misure di riduzione del danno”. Questa semplice postilla segnava però un punto di svolta, decretando la fine dell’unanimismo.
Dalla seconda decade del 2000, si assiste ad una forte accelerazione nella riforma della politica delle droghe. Il regime internazionale è contestato apertamente nei paesi che più ne sopportano il peso: tanto che nel 2012, la risoluzione finale della Organizzazione degli Stati Americani (OAS), che raccoglie gli stati sia del Sud che del Nord America, nella riunione annuale di Cartagena, rilasciò una dichiarazione finale critica della war on drugs (vedi in questa rubrica Amira Armenta, 20/6/’12). E l’anno successivo la stessa OAS pubblicò un rapporto (Scenarios for the drug problem in the Americas 2013-2025) che invitava a valutare opzioni alternative alla proibizione.
Ancora più importante, forme alternative di regolamentazione delle droghe sono già in via di sperimentazione in varie parti del mondo. La Bolivia ha legalizzato l’uso tradizionale della foglia di coca, riconfermando l’adesione alle Convenzioni con questa importante riserva. In Usa, quattro stati hanno legalizzato la marijuana a scopo ricreativo: a questi, probabilmente si aggiungerà la California, il più importante fra gli stati, nei prossimi mesi. Ma il cambiamento è anche a livello di amministrazione, se è vero che Obama ha deciso di non far valere la competenza federale e ha lasciato autonomia alle sperimentazioni dei singoli stati. Ancora, nel dicembre 2013, il parlamento uruguayano ha approvato la legalizzazione della cannabis. In Europa, sulla base della decriminalizzazione del consumo personale nella gran parte dei paesi, si diffondono a macchia d’olio i Cannabis Social Club, dalla Spagna, al Belgio, alla Svizzera e altri.
Dunque il cambiamento c’è già, il problema è come si ripercuoterà a livello internazionale. Sarà un dibattito vero, dove finalmente si confronteranno opzioni diverse di politica delle droghe? Oppure prevarrà il conservatorismo degli stati che neppure vogliono sentire le parole “cambiamento” e “confronto”? (continua)

Vai al dossier “Verso Ungass 2016

Fonte: Fuoriluogo

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Negazionismo HIV/ AIDS “peer-reviewed”?

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aidsScienziati e pazienti non ci stanno
Quattro ricercatori italiani, assieme a un forum di pazienti, hanno chiesto alla rivista Frontiers in Public Health di ritirare ufficialmente l’articolo della psicologa Patricia Goodson che diffonde alcune tra le più pericolose bufale su Hiv/Aids

 

 

 

La revisione paritaria è un sistema tutt’altro che perfetto, ma complessivamente è ancora un potente strumento che permette alla comunità scientifica di collaborare, correggere i propri errori, e tenere fuori dalla porta la maggior parte dei ciarlatani. Ma se la peer-review non è perfetta, l’editoria scientifica ne moltiplica i difetti. Per esempio gli editori predoni hanno sfruttato il modello open access, in sé assolutamente rivoluzionario, per pubblicare a pagamento qualunque baggianata, mentre un problema comune a tutti gli editori è quello del ritiro degli studi. Il lavoro del blog Retraction Watch dimostra che l’attuale sistema con il quale l’editore o gli autori ritirano ufficialmente una pubblicazione, deve essere migliorato sia nei tempi (spesso troppo lunghi) sia nelle modalità.

Visto che da anni si discute di questi temi, il recente comportamento del famoso gruppo editoriale Open Access Frontiers riguardo a un articolo pseudoscientifico pubblicato lo scorso settembre su Frontiers in Public Health è preoccupante.

I fatti, in sintesi, sono i seguenti: Patricia Goodson, forte di una laurea in linguistica, un master in filosofia dell’educazione e uno in teologia, ora è professore al dipartimento Health and Kinesyology della Texas A&M University. Nonostante la mancanza di ogni base accademica in virologia o immunologia, la Goodson ha vergato un paper intitolato Questioning the HIV-AIDS hypothesis: 30 years of dissent e lo ha inviato a Frontiers in Public Health. Il 7 settembre il paper è stato accettato per la pubblicazione e il 23 settembre è stato pubblicato.

Dal ridicolo rifiuto che il virus HIV sia responsabile dell’AIDS, al mettere in dubbio l’efficacia provata della terapia con antiretrovirali, il paper è una perfetta sintesi del materiale negazionista che si può raccogliere con dieci minuti di lavoro su Google eppure, in qualche modo, questo deve essere sfuggito ai revisori. Immediatamente dopo la pubblicazione, è scattata la protesta della comunità scientifica mondiale, che potremmo riassumere con uno dei primi commenti sotto il paper.

Delete This Profile Coming soon from Frontiers in Geology, the great new article: “Questioning the ellipsoidal earth hypothesis: 3000 years of dissent”.

To be followed by a spectacular special issue in Frontiers in Chemistry: “I am Phlogiston (And So Can You!)”

HIV denialism would be laughable if it were not irresponsible and deadly.

26 Sep 2014 at 07:23am

La rivista ha immediatamente comunicato che a seguito delle proteste avrebbe lanciato un’indagine interna. Qualche giorno fa è stato comunicato il verdetto: il paper sarà declassato da studio a opinione personale.

Qualcuno potrebbe dire che è tutto risolto, ma in realtà la scelta di non ritirare l’articolo non ha fatto altro che peggiorare una situazione già drammatica. Anche in questa forma, le bufale della dottoressa Goodson rimangono associate a una letteratura scientifica alla quale non appartengono.

In Italia il sito Hivforum.info, un punto di riferimento per l’informazione sulla sieropositività, ha deciso di inviare ai responsabili della rivista una lettera di protesta sulla decisione firmata anche da quattro importanti scienziati italiani che si occupano di HIV/AIDS:

– Guido Poli, Unità di Immunopatogenesi dell’AIDS, Ospedale San Raffaele e Università Vita-Salute San Raffaele, Milano, Italia

– Guido Silvestri, Emory University School of Medicine, Emory University, Atlanta, GA, USA

– Andrea Savarino, Istituto Superiore di Sanità, Roma, Italia

– Giovanni Maga, Instituto di Genetica Molecolare IGM-CNR, Pavia, Italia

La lettera, inviata domenica scorsa e scaricabile a questo indirizzo, demolisce punto per punto le bufale propagandate dalla dottoressa Goodson, e chiede a Frontiers di considerare le conseguenze della sua decisione:

[…] Sfortunatamente la nostra fiducia nel giudizio dei senior editor di Frontiers sembra sia stata malriposta. La decisione di declassare il paper a “Opinion Article” non farà nessuna differenza per il pubblico non specializzato a cui dal principio ci si voleva rivolgere, che vedrà solamente che le affermazioni della Goodson sono state pubblicate su una rivista con revisione paritaria e una certa reputazione, e sono per questo da ritenersi credibili. La pubblicazione del paper è stata dal principio un errore imbarazzante che ha evidenziato ai lettori e ai collaboratori un significativo deficit di controllo editoriale da parte del giornale. Nel suo Statement of Concern, l’editore ha promesso di rendere pubblici i risultati dell’indagine su come il paper è arrivato alla pubblicazione. A oggi questo non è accaduto. La decisione dei senior editor di Frontiers di mantenere la pubblicazione nonostante siano stati avvertiti delle probabili conseguenze per la salute pubblica è incomprensibile, e sembra dimostrare indifferenza o ignoranza delle responsabilità della rivista verso i propri lettori, i collaboratori e il pubblico.

 

Pubblicato con licenza Creative Commons Attribuzione-Non opere derivate 2.5 Italia.
Crediti immagine: “HIV-budding-Color” by C. GoldsmithContent Providers: CDC/ C. Goldsmith, P. Feorino, E. L. Palmer, W. R. McManus – via Wikimedia Commons.

Fonte: https://oggiscienza.wordpress.com/2015/03/05/negazionismo-hivaids-peer-reviewed-scienziati-e-pazienti-non-ci-stanno/

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Relazione al Parlamento sulle attività Aids anno 2013

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aidsLa relazione, inviata al Parlamento il 2 febbraio 2015, illustra le attività svolte dal Ministero nell’ambito dell’informazione, prevenzione, assistenza e attuazione di progetti relativi all’ Hiv/Aids. La relazione riporta, inoltre, le attività svolte dalla Commissione nazionale per la lotta contro l’Aids e l’attività svolta dall’Istituto superiore di sanità, in particolare le iniziative in tema di sorveglianza dell’infezione da Hiv e dell’Aids, di ricerca e di consulenza telefonica (Telefono Verde AIDS e IST).

La relazione viene predisposta ogni anno, ai sensi dell’articolo 8, comma 3, della legge 5 giugno 1990, n.135. Gli argomenti contenuti sono raggruppati in due capitoli nei quali sono riportate, rispettivamente, le attività svolte dal Ministero della salute e quelle dellIstituto superiore di sanità.

Leggi la relazione al Parlamento.

Fonte: Ministero Della Salute

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L’ Hiv non mi riguarda, ecco perchè non faccio il test

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hiv inconsapevoliMa perché gli italiani fanno poco il test?
Il presidente di Lila Milano risponde alla domanda posta da Healthdesk nell’articolo del 16 febbraio

Secondo Massimo Oldrini, presidente della Fondazione Lila Milano, «per mille ragioni non è così comune effettuare questo tipo di test». Gioca un ruolo fondamentale la bassa percezione del rischio. O meglio, la convinzione che l’Hiv riguardi solo gli altri. Secondo una ricerca Gfk Eurisko, lo pensano 8 italiani su dieci. In altre parole, l’80% della popolazione è convinta di non correre alcun pericolo. E non perché sia difficile contrarre il virus, ma perché essenzialmente sarebbero a rischio tossicodipendenti, omosessuali e chi ha relazioni promiscue. Insomma, stigma sociale e disinformazione hanno ancora un peso rilevante. «Subiamo infatti ancora l’eco della cattiva comunicazione fatta negli anni iniziali dell’epidemia: quando si parlava di categorie a rischio, quindi di omosessuali e tossicodipendenti, e non si diceva che anche i rapporti eterosessuali espongono al rischio di contagio se non si usa il preservativo».

Ma un altro fattore deterrente è l’accesso al test. «In Italia – continua Oldrini – c’è una situazione a macchia di leopardo. Il test (lo sancisce la Legge n. 135 del 1990) dovrebbe essere anonimo, gratuito, e accompagnato da un colloquio con personale esperto, che sia di sostegno alla persona che si sottopone al test e veicoli informazioni sui comportamenti a rischio. Ma non ovunque è così. Inoltre se in alcune regioni i punti test si trovano in tutte le asl e in tutti i distretti, in altre invece bisogna percorrere 70 chilometri per poter eseguire il test».
Medici parlate di Aids

Da non sottovalutare, poi, secondo il presidente della Lila Milano, il ruolo dei medici di famiglia: «Raramente parlano con i propri assistiti di questioni legate alla sessualità e anche in caso di malattie fortemente correlate all’Hiv non suggeriscono ai pazienti di fare il test». E il peso della cecità politica: «In Italia non si può parlare di educazione sessuale nelle scuole, non si può promuovere l’uso del preservativo, e l’unica cosa fatta per sensibilizzare all’uso del test è riuscita male. Mi riferisco ai fondi (15 milioni di euro) stanziati per gli “Obiettivi di Piano Sanitario Nazionale 2012”, per finanziare una serie di progetti regionali relativi al test Hiv. Non tutto è andato come auspicato e, insieme a Cittadinanzattiva, la Lila ha denunciato le irregolarità nell’utilizzo regionale dei fondi».
Non si può sparare sul mucchio. L’importante è prevenire

«In ogni caso, in termini di salute pubblica, non è pensabile uno screening generale della popolazione: in media infatti su 100 persone che si sottopongono al test soltanto una risulta sieropositiva. Bisognerebbe invece favorire e semplificare l’accesso al test. A tal fine, in collaborazione con Asl Milano e Anlaids, il San Raffaele offre ogni mese, gratuitamente, il test rapido su saliva per l’individuazione di anticorpi specifici del virus Hiv. Entro pochi minuti dal prelievo del tampone, siamo in grado di fornire il risultato: se è negativo si può escludere con certezza il contatto con l’Hiv, in caso di positività, invece, si procede con l’esame standard su sangue per la conferma. Ma non è un modo per stanare il sommerso: riusciamo a eseguire soltanto intorno ai 2.000 test all’anno nella città di Milano».

«Non ci dimentichiamo però – conclude Oldrini – che il test, su sangue o su saliva, può accertare l’infezione già avvenuta. È cioè uno strumento diagnostico e non di prevenzione. Fare prevenzione significa investire in campagne di comunicazione, formazione e sensibilizzazione per tutelare la salute di tutti».

Fonte: Healthdesk

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Plus Onlus: S.Valentine Testing Week

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testing weekLa Testing Week della settimana di S. Valentino:

– si terrà presso la sede del MIT in via Polese, 22 a Bologna nelle giornate: 14, 15, 16, 18 e 19 febbraio dalle 18 alle 22.
– Il test per HIV si effettua su una goccia di sangue.
– E’ anonimo, rapido, sicuro.
– Il periodo finestra è di 3 mesi.
– Non ci sono restrizioni alimentari.
– Anche se non te la senti di fare il test, ma vuoi informazioni o semplicemente hai voglia di parlare con qualcuno di HIV, siamo a tua disposizione.
– La linea positiva 800.586992 sarà attiva dalle 18 alle 22 per tutta la durata della testing week
– La Testing Week è stata resa possibile grazie al lavoro dei volontari di Plus e alle sinergie che abbiamo creato con gli operatori dell’Azienda Sanitaria di Bologna, il Mit che ci ospita, la fondazione AHF, il circolo RED.

per informazioni: info@plus-onlus.it

Fonte: PLUS Onlus

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