Carcere: strutture fatiscenti e assistenza sanitaria di pessima qualità

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Strutture fatiscenti e assistenza sanitaria di pessima qualitàE’ allarme salute per i detenuti negli istituti penitenziari italiani: 2 su 3 sono malati, nel 48% dei casi per malattie infettive, il 32% ha disturbi psichiatrici. L’epatite colpisce 1 detenuto malato su 3, mentre sono in riduzione i sieropositivi per Hiv.

E’ la fotografia scattata dagli esperti Società italiana di Medicina e sanità penitenziaria (SIMSPe) per la tutela delle condizioni di salute dei detenuti italiani per il congresso nazionale che si aprirà mercoledì a Cagliari. Sono 199 gli istituti penitenziari aperti, con una capienza totale di 49.493, nonostante i detenuti presenti siano 53.498, per un sovraffollamento di 4.628, che equivale ad un +8,1%. I detenuti stranieri rappresentano il 32,6% del totale, pari a 17.430, mentre le donne sono 2.309, ossia il 4,3%.

 

Secondo l’indagine, che sarà presentata durante il congresso, almeno una patologia è presente nel 60-80% dei casi. Questo significa che almeno due persone su tre sono malate. Tra le malattie più frequenti, proprio quelle infettive, che interessano il 48% dei presenti. A seguire i disturbi psichiatrici (32%), le malattie osteoarticolari (17%), quelle cardiovascolari (16%), problemi metabolici (11%) e dermatologici (10%). Una situazione che, nonostante l’appello della SIMSPe si è fatta portavoce negli ultimi anni, non ha sortito l’effetto sperato. Gli ultimi dati sulle epatiti, infatti, hanno rilevato la presenza di un malato di questa patologia ogni tre persone residenti in carcere. Mentre sono in calo i sieropositivi per Hiv.

 

“Bisogna ricordare che il paziente detenuto di oggi, è il cittadino libero di domani – afferma Sergio Babudieri, presidente della SIMSPe – Tutte le informazioni di tipo scientifico ed epidemiologico, sia in Italia che all’estero, indicano sempre lo stesso punto, ossia che in carcere si concentrano persone che hanno comportamenti di vita che sono a rischio dell’acquisizione di una serie di malattie non solo infettive, ma anche di tipo metabolico, come ad esempio obesità, fumo, alcolismo; da ciò si evince evidentemente che il carcere è un ambito in cui la sanità pubblica può più facilmente intercettare persone che, una volta invece diluite nella popolazione generale, è più difficile incontrare, anche perché per il loro stile di vita spesso non hanno il bene salute nei primi posti della loro scala dei valori”.

 

La popolazione detenuta in Italia è cresciuta negli ultimi dieci anni dell’80% – ricordano i medici penitenziari – La maggior parte delle carceri ha dei tratti comuni: bagno e cucina nello stesso locale, cambio di lenzuola ogni 15 giorni, bagno alla turca o water separati gli uni dagli altri da un muretto alto appena un metro, strutture fatiscenti. Il personale è insufficiente, gli assistenti sociali sempre meno del necessario. L’assistenza sanitaria, come si può facilmente intuire da questo quadro, può risultare spesso di pessima qualità.

 

“Bisogna ricordare che il paziente detenuto di oggi, è il cittadino libero di domani – chiosa Babudieri – Tutte le informazioni di tipo scientifico ed epidemiologico, sia in Italia che all’estero, indicano sempre lo stesso punto, ossia che in carcere si concentrano persone che hanno comportamenti di vita che sono a rischio dell’acquisizione di una serie di malattie non solo infettive, ma anche di tipo metabolico, come ad esempio obesità, fumo, alcolismo; da ciò si evince evidentemente che il carcere è un ambito in cui la sanità pubblica può più facilmente intercettare persone che, una volta invece diluite nella popolazione generale, è più difficile incontrare, anche perché per il loro stile di vita spesso non hanno il bene salute nei primi posti della loro scala dei valori”.

 

Infine, secondo l’indagine della SIMSPe, che ha studiato i singoli casi dei detenuti che si sono sottoposti a test e controlli (circa il 56%), il tasso di trasmissione stimato dalle persone positive all’Hiv consapevoli si aggira tra l’1,7% e il 2,4%. Molto più alto, quasi 6 volte superiore, quello stimato dalle persone Hiv positive inconsapevoli, che raggiunge il 10%.

Fonte:  Focus.it (AdnKronos Salute)

 

Primo Piano – Vaccino Tat, potenziata l’efficacia della terapia antiretrovirale e stimolato il sistema immunitario

I risultati della seconda fase di sperimentazione del vaccino Tat pubblicati oggi su Retrovirology

ISS 29 aprile 2015

Il Vaccino Tat in associazione alla terapia farmacologica (HAART) è in grado di stimolare il sistema immunitario di un paziente con HIV aumentando l’efficacia degli antiretrovirali e di aumentare sensibilmente le cellule T CD4+, bersaglio del virus. È questo il risultato della seconda fase di sperimentazione del vaccino Tat, messo a punto dall’équipe guidata da Barbara Ensoli, Direttore del Centro Nazionale Aids dell’Istituto Superiore di Sanità, condotta su 168 pazienti, seguiti per tre anni consecutivi, in undici centri clinici italiani diffusi in tutta la penisola.

Ai pazienti con infezione da HIV è stato somministrato il vaccino alle dosi di 7.5 o 30 microgrammi di proteina Tat una volta al mese, per 3 o 5 mesi con l’obiettivo di indurre anticorpi diretti contro questa proteina, essenziale per la replicazione del virus. I risultati dello studio indicano che nei pazienti vaccinati, oltre ad essere stati prodotti gli anticorpi contro la proteina Tat, è stato osservato anche un significativo aumento di cellule T CD4+, indicativo della ripresa del sistema immunitario. Anche delle cellule T e B, e di altre cellule immunitarie, è stato osservato un incremento.
La risposta maggiore è stata riscontrata nei soggetti che hanno ricevuto tre somministrazioni del vaccino contenente 30 microgrammi della proteina Tat. Questi effetti persistono nei tre anni successivi all’immunizzazione.

Abbiamo dimostrato per la prima volta che la terapia antiretrovirale può essere intensificata attraverso un vaccino – ha detto Barbara Ensoli, che si attende di confermare questi risultati con il trial di fase II randomizzato e controllato con placebo recentemente completato in Sudafrica – Si tratta di risultati che aprono nuovi scenari per indagare più specificamente se questo vaccino può aiutare a controllare il virus in pazienti con bassa aderenza alla terapia antiretrovirale, consentire la semplificazione della terapia, ridurre la trasmissione della malattia.

In parallelo alla sperimentazione, è stato condotto uno studio osservazionale separato su un gruppo di 79 pazienti in trattamento con la sola terapia antiretrovirale. Tale gruppo ha rappresentato il riferimento per lo studio dei biomarcatori della malattia. È stato possibile così osservare che in coloro ai quali era stato somministrato anche il vaccino si è verificata una riduzione significativa del DNA provirale di HIV che funge da indicatore della forma latente del virus nei cosiddetti serbatoi del virus.

Si tratta di un risultato importante poiché, nonostante i farmaci blocchino quasi completamente la replicazione virale, il virus può ancora replicare a bassi livelli ed accumularsi in forma latente nei serbatoi non suscettibili all’azione dell’HAART e può causare complicazioni e morte dovute a patologie diverse da quelle tipicamente associate all’AIDS.

Hiv: Italia all’avanguardia nella cura dei pazienti, premiati i giovani ricercatori

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Sono 11 i progetti finanziati dall’UE guidati da leadership italiana. Migliorano le cure nonostante manchi ancora un vaccino per l’Hiv. Rimane il problema del sommerso. In arrivo nuovi programmi per reperire fondi. È quanto emerso alla VII Conferenza italiana su Aids e retrovirus (Icar) in corso a Riccione.

Individuare percorsi di diagnosi e cura dell’infezione da Hiv che si basino sulle interazioni tra ricerca di base, ricerca diagnostico-clinica ed esigenze delle persone sieropositive.
È questo l’obiettivo della VII Conferenza italiana su Aids e retrovirus (Icar) in corso a Riccione che ha visto protagonisti i giovani ricercatori italiani e stranieri.E Letizia Marinaro dell’Università di Torino si è aggiudicata il Premio ICAR-CROI Awards 2015 per i giovani ricercatori italiani.

Il primato italiano. La ricerca italiana è all’altezza delle altre nazioni europee, ha ricordato Adriano Lazzarin, della Divisione di malattie infettive Irccs San Raffaele e Presidente Icar. E il principio alla base di questa affermazione è molto semplice: “i farmaci antiretrovirali sono disponibili per tutti. L’Italia è stata efficiente anche nell’ottenerli nella fase di sviluppo; si dovrebbe rendere più rapida la registrazione per averli a disposizione”.

Un vantaggio del sistema italiano è che ha fatto un piano di intervento ministeriale con una legge centrata sui professionisti di settore (centri e ambulatori di malattia infettiva, distribuzione farmaci negli ospedali) (L. 135/90). La retention in care è assolutamente più efficace in Italia che in tutti gli altri Paesi occidentali: quello italiano è un modello di intervento da esempio per gran parte del resto del mondo, che porta ad una viremia negativa dell’80% dei pazienti seguiti. Negli Usa, ad esempio, i molteplici passaggi necessari dal test alla cura fino al medico di medicina generale porta a risultati molto più modesti (50%).

Risorse economiche. Un passo in avanti ci sarà sul fronte del sostegno economico. Come annunciato da Stefano Vella, Direttore del Dipartimento del Farmaco dell’Iss “un nuovo modello di cooperazione tra gli stati membri con un progetto denominato EDCTP Plan permetterà a breve un nuovo slancio per il reperimento dei fondi, a garanzia della salute globale e della ricerca”.

Ci sono le cure, non un vaccino. Ad oggi, un vaccino per l’Hiv non esiste. È stata una chimera inseguita dai primi ricercatori più negli anni ’80, spiega Lazzarin “il problema principale è che un vaccino facile da costruire si ricava da un anticorpo che inattiva il virus e lo blocca; per l’Hivciò non può essere realizzabile, poiché gli anticorpi neutralizzanti, laddove esistano, non sono in grado di bloccare l’infezione una volta che è entrata nella cellule. Quindi il problema di non acquisire l’infezione si può risolvere cercando di far produrre anticorpi contro il virus, ma ad oggi nessun anticorpo da solo sembra in grado di neutralizzare l’infezione”.

Si possono dunque solamente potenziare le difese immunitarie contro il virus. Con la cosiddetta vaccinazione terapeutica e non preventiva che viene aperta una finestra sul rafforzamento delle risposte immunitarie attraverso le cellule che generano anticorpi: l’organismo sottoposto alla vaccinazione riuscirebbe così a potenziare la capacità di produrre anticorpi attraverso lo stimoli di cellule dendritiche. Le cellule dendritiche sono le prime colpite dall’infezione, che poi passano ai linfociti. Il risultato delle dimostrazioni effettuate finora non ha però mostrato il vaccino come un obiettivo facilmente perseguibile. In merito a quegli studi internazionali che prefigurano risultati rivoluzionari dunque si può essere ottimisti, ma con molta cautela.

Test e prevenzione. Resta il problema del “sommerso”, ovvero di coloro che ignorano di essere infetti. Oggi, il comportamento maggiormente a rischio per il sommerso sono i rapporti omosessuali tra giovani maschi; discorso a parte va fatto per gli immigrati, il cui discorso è complesso in quanto rappresentano il sommerso per eccellenza, mentre le diverse caratteristiche etniche e la provenienza geografica generano notevoli differenze per il rischio di infezione.
“Bisogna stimolare le persone, oltreché con la campagna di informazione/prevenzione, soprattutto all’esecuzione dei test – ha aggiunto Lazzarin – è necessario rivolgersi a singoli, in particolare ai giovani”. Spesso i metodi più semplici vengono ignorati: per chi ha raggiunto una certa età, il test dell’HIV può essere effettuato assieme a quello delle malattie più comuni. I più giovani, che sono anche i meno motivati, devono essere sollecitati e avere a disposizione strumenti semplici, come il moderno test salivale, in uso anche per l’epatite C.

 

FONTE: quotidianosanità.it

 

ICAR: le persone coinfette HIV/HCV a rischio vita

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coinfetteLe Associazioni chiedono audizione all’ AIFA.
“Abbiamo oggi un’ulteriore conferma dell’urgenza di curare coloro che hanno una doppia infezione da Hiv e Epatite C e chiediamo subito un tavolo con Aifa e le case farmaceutiche”: lo affermano i presidenti delle associazioni Lila, Nadir e Plus commentando i dati presentati alla Conferenza Italiana su AIDS e Retrovirus secondo cui 376 persone coinfette delle 8000 che in Italia hanno una grave coinfezione Hiv e Epatite C moriranno nei prossimi 5 anni se non trattati con i nuovi farmaci.

“Chiediamo subito all’Aifa l’attivazione di un tavolo con le associazioni dei pazienti e le case farmaceutiche per rivedere i criteri di inclusione delle persone con Hiv/Hcv ma anche per ragionare su possibili riduzioni dei costi della terapia a fronte alla grande necessità”: lo affermano i presidenti di Lila, Nadir e Plus, Massimo Oldrini, Filippo Schloesser, Sandro Mattioli a ICAR (Italian Conference on AIDS and Retroviruses) dopo la presentazione di Massimo Puoti, Direttore del reparto di malattie infettive all’ospedale Niguarda Ca’ Granda di Milano, che ha quantificato le morti che avverranno nei prossimi cinque anni se l’Aifa continuerà a escludere i coinfetti Hiv/Hcv dall’accesso prioritario alle cure.

Nella lettura sul trattamento dell’Epatite C nelle persone con Hiv, Puoti ha affermato che sui 30mila coinfetti Hiv/Hcv, sono 8000 coloro che, nonostante la malattia di fegato moderata (fibrosi F2 Metavir) progrediranno verso la cirrosi e il cancro del fegato. Se queste persone verranno curate potranno essere risparmiate 376 morti e 500 gravi malattie del fegato. Secondo l’infettivologo del Niguarda ciò avverrà perché le persone con coinfezione, anche se hanno una fibrosi moderata ha una progressione verso la cirrosi molto più rapida delle persone mono infette con Epatite C.

Per informazioni e contatti:

LILA Onlus: Ludovica Jona, Ufficio stampa – l.jona@lila.it – 348 0183527 – www.lila.it
Nadir Onlus: redazione@nadironlus.org – www.nadironlus.org
Plus Onlus: www.plus-onlus.it

Fonte: Newsletter Nadir Onlus

 

Prevenzione dell’Hiv, dubbi sulla profilassi PrEP

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PrEP sì o no? Nel corso della VII Conferenza italiana su Aids e retrovirus (Icar), in corso a Riccione, ricercatori, istituzioni e rappresentanti delle associazioni si sono confrontati sulla terapia antiretrovirale per la prevenzione dell’Hiv. La PrEP (profilassi pre-esposizione) si basa sull’assunzione di una pillola, già sperimentata, in persone non sieropositive ad alto rischio, in America.

Tavola rotonda sulla PrEP a ICAR

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prepGli esperti presenti a ICAR oggi si confrontano sulla PrEP (profilassi pre-esposizione). Numerosi gli studi a riguardo e contrastanti i pareri delle varie personalità presenti. Ci sono le speranze e le attese di chi la considera un ottimo strumento di prevenzione contro l’infezione da HIV, ci sono i dubbi di chi ritiene siano altre le priorità nella lotta all’HIV e ci sono i timori che la PrEP faccia dimenticare l’uso del preservativo che è il solo strumento efficace contro le altre Malattie Sessualmente Trasmissibili (MST).

“PrEP: is it the right time to act ?” è il titolo della Tavola Rotonda che ospita alcuni ricercatori che hanno condotto gli ultimi studi clinici come Sheena Mc Cormick (UK) per lo studio PROUD e Eric Cua (F) per lo studio IPERGAY, insieme a Roy M.Gulick, infettivologo americano con anni di esperienza in questo ambito, e a Sabrina Spinoza Guzman, dell’ EMA (Agenzia europea dei medicinali), insieme alle Associazioni di persone con HIV e alla comunità scientifica infettivologica.

“I dati ottenuti dagli studi PROUD e IPERGAY – spiegano i presidenti del Congresso Cristina Mussini, Laura Sighinolfi e Andrea Cossarizza – entrambi rivolti a MSM (uomini che fanno sesso con uomini) e donne transgender, sono sicuramente importanti, ma il fatto che entrambi abbiano dimostrato livelli di efficacia tanto elevati statisticamente testimonia l’efficacia preventiva della PrEP, e rivela anche quanto sia alto il tasso di infezione in determinati gruppi nei paesi occidentali. Solo a loro, quindi, insieme alle coppie sierodiscordanti, dovrebbe essere offerta la PrEP e non a tutti, come invece chiede la maggior parte di chi la sostiene”.

A livello europeo, il primo paese a richiederla è stata la Francia, dove è attesa per questa estate l’autorizzazione “sub judice” (per i prossimi 2 anni la PrEP sarà disponibile gratuitamente). Per quanto riguarda la posizione italiana, un centinaio di infettivologi hanno risposto ad un questionario, promosso dall’IRCCS AOU San Martino di Genova, che viene presentato durante i lavori a Riccione: il 48% dei partecipanti ritiene non vi siano ragioni sufficienti per rendere disponibile la PrEP anche in Italia, ma il 35% la sostiene comunque. Il 71% degli intervistati teme lo spostamento di attenzione da altri interventi preventivi più utili, il 16% teme il rischio di una eccessiva medicalizzazione della prevenzione di HIV. Del campione, solo il 33% ha “familiarità” con la PrEP e il 63% ha ricevuto domande, soprattutto (86%) da coppie sierodiscordanti.

La disponibilità, comunque, della PrEP non modificherebbe il tipo di vita sessuale per il 64% del campione, anche se è diminuita la percentuale di chi userebbe sempre il preservativo (dal 37% al 27%) e, viceversa, è aumentata quella di chi non lo userebbe mai (dall’11% al 17%).

“In Italia non riusciamo a far diminuire il numero di nuove diagnosi di infezione da HIV registrate ogni anno – dichiara Giulio Maria Corbelli, membro dell’Associazione Plus – È evidente che, se vogliamo davvero fermare la diffusione dell’HIV in Italia, dobbiamo adottare una strategia innovativa: quello che si dimostra più efficace è un approccio “di combinazione”, cioè che metta a disposizione diversi strumenti e diffonda una informazione capillare in modo che ciascuno possa scegliere la strategia più adatta alle proprie esigenze. In questo approccio la PrEP – cioè la possibilità per persone sieronegative ad alto rischio di contrarre l’infezione da HIV di assumere un farmaco per evitare di contrarre l’infezione – può avere un ruolo essenziale perché consente, ad esempio, di prevenire l’infezione in persone che nonostante siano bene informate non riescono o non vogliono usare costantemente il preservativo con diversi partner sessuali”.

“Allo stato attuale siamo contrari alla PrEP – dichiara Margherita Errico, Presidente di NPS Italia Onlus – Non troviamo giusto l’approccio culturale di medicalizzare il sesso, ma ci rendono molto perplessi anche gli alti problemi di costi, di cui ancora non è chiaro su chi dovrebbero ricadere. In più manca completezza dei dati fondamentali, quelli italiani ed europei, perché quelli americani non bastano, e questo gap di dati sulla tollerabilità non va trascurato. Non si hanno neanche dati sufficienti sul livello di penetrabilità della PrEP a livello degli organi genitali. E non abbiamo neanche dati certi sul rischio di aumentato sviluppo di resistenze ai trattamenti antiretrovirali. Infine, allo stato attuale, gli studi sottolineano e confermano come nel lungo termine i pazienti con Hiv riscontrino problemi sia con i reni che con le ossa.

“Se il preservativo è efficace nel 99%, quella della PrEP è variato dall’iniziale 92% del 2011 all’86% delle ultime rilevazioni – prosegue Margherita Errico – Questo margine scoraggia chi si approccia a questa terapia, a nostro avviso. Un dato importante e preoccupante, per cui sentiamo fervida la responsabilità di chiedere al Sistema Sanitario di non intervenire a favore della stessa terapia. A farci preoccupare un dato che molti sembrano trascurare: molti di questi pazienti americani non stanno usando il preservativo, così le ultime dichiarazioni dagli studi presentati a Seattle lo scorso marzo, quindi non c’è copertura rispetto ad epatite, sifilide e altre malattie infettive che sono a loro volta terreno fertile per l’acquisizione comunque dell’infezione da Hiv. Cosa non da poco, per esempio, se si pensa che la sifilide, secondo dati CDC,è stata rintracciata nel 48% dei casi tra gli omosessuali.”

Interviste: Meteoweb

L’articolo Tavola rotonda sulla PrEP a ICAR è uno degli articoli di Poloinformativo HIV AIDS.

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Osteoporosi e HIV – Strategie di trattamento

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osteoporosiSecondo uno studio pubblicato online sulla rivista HIV Medicine, organo ufficiale della British HIV Association, il trattamento standard con una dose singola di zoledronato in 2 anni sembrerebbe essere efficace sulla densità minerale ossea dei pazienti con HIV affetti da osteoporosi almeno quanto il trattamento con 2 dosi di farmaco nello stesso arco temporale.

 

 
Come è stato ampiamente documentato in una review di recente pubblicazione (2), in molti pazienti affetti da HIV è stata documentata una riduzione dei livelli di massa ossea. Si ritiene che, all’aumento del rischio di osteopenia/OP contribuiscano, oltre a fattori di rischio tradizionali quali il fumo, l’impiego di alcool, l’ipovitaminosi D, l’ipogonadismo, la sedentarietà e un basso peso corporeo, anche il virus HIV stesso, alterando i processi di osteoblastogenesi e osteoclastogenesi o con la stimolazione della sintesi di citochine pro-infiammatorie che potrebbero promuovere i processi di riassorbimento osseo.

I bifosfonati (BSF) costituiscono una classe di molecole uniche dal punto di vista farmacologico, essendo in grado di legarsi inizialmente alla massa minerale ossea per poi essere fagocitati all’interno degli osteoclasti nel corso del processo di riassorbimento osseo ed inibire l’attività di queste cellule mediante il blocco di un enzima chiave della via metabolica del mevalonato, la farnesil pirosfosfato sintetasi. Tra i BSF disponibili zoledronato rappresenta la molecola della classe con la maggior potenza di inibizione dell’enzima sopra menzionato ed un’elevata affinità per l’idrossiapatite, fattore, quest’ultimo, predittivo di una prolungata durata d’azione del farmaco.

Obiettivo dello studio è stato quello di valutare efficacia e sicurezza di due regimi di somministrazione di zoledronato, mettendo a confronto tre gruppi di pazienti: quelli sottoposti a trattamento annuale, quelli sottoposti a doppia somministrazione in 2 anni e quelli non sottoposti a trattamento con il BSF (gruppo di controllo).

A tal scopo, 31 pazienti positivi al virus HIV e con bassi livelli di densità minerale ossea sono stati randomizzati, secondo uno schema 2:1, al trattamento con terapia anti-retrovirale e zoledronato (5 mg endovena; 21 pazienti) o con placebo (10 pazienti). Il gruppo in trattamento attivo prevedeva anche l’osservanza di alcuni consigli dietetici. Dopo 48 settimane dal trattamento, i pazienti randomizzati a zoledronato sono stati nuovamente randomizzati, questa volta secondo uno schema di randomizzazione 1:1, al trattamento con una seconda dose del BSF o a continuare l’osservanza di alcuni consigli dietetici.

Gli outcome considerati sono stati rappresentati dalla variazioni di DMO a livello della colonna lombare e dell’anca e da quelle dei marker di turnover osseo.

I risultati hanno documentato che la variazione percentuale mediana della DMO della colonna lombare, misurata dall’inizio dello studio alla 96esima settimana, è stata pari a -1,74%, 7,9% e 5,22% rispettivamente nel gruppo di controllo, in quello sottoposto a monosomministrazione standard di zoledronato e nel gruppo sottoposto a 2 iniezioni di BSF. La significatività statistica del miglioramento ottenuto con il trattamento con zoledronato è stata documentata sia tra il gruppo di controllo e i 2 regimi di somministrazione del farmaco che tra il gruppo di controllo e la dose singola di farmaco, ma non tra i 2 regimi di somministrazione del farmaco, ad indicare la sovrapponibilità dei 2 regimi in termini di outcome.

Lo stesso trend è stato documentato per le variazioni percentuali mediane della DMO a livello dell’anca e per la significatività statistica dei confronti tra gruppi. A 96 settimane, inoltre, lo studio non ha rilevato differenze tra i 2 gruppi in trattamento con BSF per quanto riguarda i livelli dei marker di metabolismo osseo.

Presi nel complesso, i risultati dello studio depongono a favore di una sostanziale equivalenza, in termini di efficacia, dei due regimi alternativi di somministrazione di zoledronato in pazienti affetti da HIV con bassi livelli di DMO, anche se le ridotte dimensioni numeriche del campione non sono sufficienti per escludere la possibilità di esistenza di differenze.
Sono necessari, perciò, nuovi studi, opportunamente dimensionati, in grado di confermare quanto fin qui osservato.

Referenze

1. Negredo E et al. Comparison of two different strategies of treatment with zoledronate in HIV-infected patients with low bone mineral density: single dose versus two doses in 2 years. HIV Med. 2015 May 6. doi: 10.1111/hiv.12260.

2. Pinzone MR et al. s There Enough Evidence to Use Bisphosphonates in HIV-Infected Patients? A Systematic Review and Meta-analysis

Canale informativo: Pharmastar

 

NPS Italia e l’esclusione degli omosessuali dalla donazione di sangue

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npsRiportiamo il comunicato di NPS Italia in relazione alla Sentenza della Corte di Giustizia UE che giustifica l’esclusione dei gay dalle donazioni di sangue.

 

 

Il 29 aprile scorso la Corte di Giustizia Europea ha emanato una sentenza dal palese contenuto discriminatorio.

NPS Italia in qualità di associazione di persone che vivono con HIV non può sottacere il proprio giudizio in merito a quanto trapela da questa sentenza.

La vicenda che ha dato l’avvio all’iter giudiziale che ha condotto all’emanazione di questa sentenza riguarda un privato cittadino francese che si è visto negare la possibilità di donare il sangue sulla base delle risposte a domande sul proprio orientamento omosessuale e sulla base di dati epidemiologici francesi risalenti al 2008.

Senza mezzi termini questa sentenza è un atto discriminatorio dal punto di vista dello spostamento dell’attenzione dai comportamenti agli orientamenti sessuali, circostanza che ci fa compiere un balzo all’indietro di anni allorquando si faceva riferimento alle c.d. “categorie a rischio” (cfr. punto 40 della sentenza), evidenziando al contempo una violazione del libero orientamento sessuale sancito nella Carta dei diritti fondamentali dalla stessa EU.

Questa sentenza si fonda sul presupposto, tutto da dimostrare, che gli epidemiologi europei hanno dichiarato la relazione omosessuale più a rischio rispetto alla eterosessuale sulla base dei dati di infezione che, obiettivamente, sono in crescita. Ma volendo fare un esempio, se si dimostrasse che la poligamia diffusa in alcuni paesi fosse più a rischio della monogamia cosa farebbe l’Europa? Emetterebbe una sentenza sull’esclusione dei poligami dalle donazioni di sangue? Senza considerare che anche nella poligamia si possono portare avanti comportamenti non a rischio con l’uso del preservativo!

Al punto 62 della sentenza si parla giustamente di “periodo finestra” come del periodo che aumenta il rischio di non rilevabilità al momento del test. Non vediamo alcuna ragione per la quale questa giusta osservazione vada associata all’orientamento sessuale omosessuale e non al comportamento. E’ evidente che il problema del periodo finestra è connesso ai possibili comportamenti a rischio di qualsiasi persona sessualmente attiva che non usa precauzioni, questo tuttavia non lo leggiamo da nessuna parte.

In Italia il dato di incidenza dell’infezione Hiv negli Msm è salito al 39,4% (dati Coa 2013) e quello eterosessuale è al 44,5%. Quindi parliamo di un dato, quello italiano, che si differenzia rispetto a quello francese. E non possiamo certo andare a quantificare il dato rispetto alla popolazione dichiaratasi omosessuale in Italia, poiché sappiamo bene che sarebbe un “censimento della popolazione con comportamenti omosessuali” impossibile e anch’esso in sé discriminatorio.

Quello che non dice questa sentenza è quindi che tutta la popolazione sessualmente attiva che non usa il preservativo nei rapporti occasionali e/o con partner sconosciuti è potenzialmente costituita da persone che mettono a rischio il ricevente nella donazione di sangue.

Infine, e non da ultimo, l’Italia si differenzia dalla Francia, non dimentichiamolo, anche sotto il profilo normativo, grazie al decreto del 2001 dell’ex ministro della salute Umberto Veronesi, che dopo dieci anni cancellò il divieto di donazione di sangue da parte degli omosessuali. L’Italia è dunque ben distante dal quadro descritto nella sentenza. Va poi sottolineato che le associazioni come la nostra lavorano con impegno per monitorare quanto succede nel corso degli interventi di counselling condotti nei centri trasfuzionali, al fine di mantenere sempre un quadro chiaro della realtà del paese.

Quello che può dedursi, dal tenore e dai contenuti della sentenza, è che la Corte teme le conseguenze di una diffusa assenza di controlli effettivi sulle sacche di sangue. Cosa sta facendo davvero l’Europa per contrastare l’epidemia da Hiv? Gli epidemiologi di tutta Europa dovrebbero pronunciarsi su questo tema.

Arrivare al punto che un giudice debba verificare se esistano o meno tecniche efficaci di ricerca del virus HIV, ai nostri occhi, significa che la scienza ha fallito, o che vi è quanto meno una diffusa sfiducia generale nell’operato degli organi tecnici di controllo.

Un giudice dovrebbe occuparsi di diritti e corretta applicazione delle norme, astenendosi dal compiere estemporanee valutazioni di carattere tecnico scientifico.

Margherita Errico

Presidente NPS Italia onlus

Fonte: NPS Italia Onlus

 

I nuovi NNRTI funzionano anche con aderenza non ottimale

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AderenzaAlcuni nuovi regimi di trattamento contro l’HIV consentono di raggiungere la soppressione virale anche con tassi di aderenza dell’ 85%, secondo i ricercatori dello studio US Veteran Aging Cohort Study pubblicato nell’ edizione on line del Journal of Acquired Immune Deficiency Syndromes.

 

 

Gli autori hanno monitorato le tendenze di aderenza e soppressione della carica virale tra il 2001 e il 2010. Sia aderenza che tassi di soppressione virale risultano migliorate nel corso degli anni. Inoltre, un aumento significativo del tasso di soppressione virale è stata osservato tra i pazienti che assumevano una terapia basata su un inibitore non nucleosidico della trascrittasi inversa (NNRTI) anche senza una perfetta aderenza.

“I nostri dati suggeriscono che i livelli di aderenza inferiore al 95% possono essere sufficienti per la soppressione virale con le nuove formulazioni NNRTI “, hanno affermato gli autori. “un 85-89% di adesione a regimi basati su NNRTI può essere sufficiente per la soppressione virale.”

L’obiettivo della terapia HIV è ottenere una carica virale non rilevabile. La percentuale di pazienti che hanno raggiunto la soppressione virale (definita in questo studio, come carica virale inferiore a 400 copie / ml) è aumentata notevolmente negli ultimi anni. Ciò è dovuto in parte al miglioramento dei farmaci antiretrovirali: quelli moderni hanno un buon profilo di sicurezza e la maggior parte ha un dosaggio semplice con combinazioni disponibili ed efficaci in una sola pillola giornaliera.
Ma non è chiaro se le combinazioni moderne richiedono un elevato livello di aderenza.

Per rispondere a questa domanda, i ricercatori hanno monitorato i tassi di aderenza e di soppressione virale tra 22.000 veterani con HIV nel corso di dieci anni. Gli autori hanno voluto vedere se il livello di aderenza necessario per raggiungere una carica virale non rilevabile differiva tra i regimi basati su NNRTI, inibitori della proteasi e nuove molecole come gli inibitori dell’integrasi. L’aderenza è stata valutata in base alle richieste di fornitura farmaci.I ricercatori hanno riconosciuto che questo non è metodo perfetto per valutare l’assunzione della pillola, ma credono che sia più affidabile del richiamo diretto al paziente.

La proporzione dei pazienti che assumono un regime complesso multi-farmaco, inibitore della proteasi o regimi a base di NNRTI è diminuito durante il follow-up rispettivamente dal 65% al 43%, e dal 33% al 16%.

Nel 2006 solo l’1% dei pazienti stava assumendo una sola pillola a base di NNRTI (emtricitabina / tenofovir / efavirenz), salendo al 29% entro il 2010. La terapia contenente un inibitore dell’integrasi è stata utilizzata da 11% dei pazienti nel 2010.

La proporzione di pazienti con aderenza del 95% o superiore è aumentata dal 37% del 2001 al 42% nel 2010. Gli autori hanno descritto questo aumento come “marginale”.

I pazienti che assumono i regimi basati su NNRTI avevano più probabilità di adesione quasi perfetta rispetto agli individui che prendono combinazioni contenenti un inibitore della proteasi. I pazienti con terapia in singola pillola avevano una migliore aderenza rispetto ai pazienti che assumono più pillole.

Le analisi dei pazienti con aderenza inferiore al 95% ha mostrato una percentuale di soppressione virale aumentata dal 38% nel 2001 al 94% nel 2010. Un aumento dei tassi di soppressione virale è stata osservata anche tra i pazienti con aderenza a partire da 70% -75%.

La percentuale di pazienti con soppressione virale sostenuta è passata dal 78% nel 2001 al 92% nel 2010.

Nel complesso, le possibilità di raggiungere soppressione virale erano le stesse per i pazienti con aderenza del 90% -94% e quelli con adesione superiore al 95%.
Confrontando i pazienti in base al tipo di regime, a tutti i livelli di aderenza, i tassi di soppressione virale erano più alti tra gli individui in terapia NNRTI.

Per i pazienti in terapia con un inibitore della proteasi, l’adesione superiore al 95% è stata associata con i più alti tassi di soppressione virale, mentre risultati inferiori sono stati osservati anche quando i pazienti stavano assumendo tra il 90% -94% delle loro dosi.

Per i pazienti in terapia a base di NNRTI, un livello di adesione del 85% è stato associato con altrettanto elevata la possibilità di raggiungere una carica virale non rilevabile come con un tasso di adesione pari o superiore al 95%.

“Questi risultati sull’aderenza non dovrebbero lasciare dubbi relativi alle barriere che ancora ostacolano la prescrizione di nuovi regimi HAART nelle fasi iniziali della malattia”, suggeriscono gli autori. “Gli sforzi devono essere fatti per massimizzare la prescrizione e l’uso di regimi single pill. In futuro ci si dovrebbe concentrare sull’uso di altri regimi a pillola singola già approvati e sui nuovi farmaci già inseriti come regimi terapeutici raccomandati negli orientamenti più recenti, facilitando il loro impiego in popolazioni con problemi di accesso e di mantenimento in cura “.

Reference

Viswanathan S et al. Adherence and HIV RNA suppression in current era of highly active antiretroviral therapy (HAART). J Acquired Immune Defic Syndr, online edition. DOI: 10/1097/QAI.0000000000000643, 2015.

Fonte: Aidsmap

Traduzione e adattamento a cura di Poloinformativo HIV
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Invecchiamento con HIV e degenerazione maculare

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invecchiamentoUn nuovo studio conferma quanto già alcune ricerche avevano previsto in relazione al maggior rischio, nell’ invecchiamento delle  persone con HIV/AIDS,  di sviluppare degerazione maculare senile (DMS; in inglese AMD, Age-related Macular Degeneration) anche in età inferiore rispetto alle persone senza HIV.

 

 

 

 

“Nei pazienti con HIV e AIDS che vivono più a lungo rispetto al passato, è aumentato il rischio di sviluppare diverse malattie legate all’età più precocemente rispetto alle persone non infette da HIV, tra cui le malattie cardiovascolari e il diabete”, ha detto Douglas A. Jabs, MD, MBA , Professore Ordinario di Oftalmologia e Medicina presso la Facoltà di Medicina di Icahn Monte Sinai, autore principale del nuovo studio. “Questo aumento del rischio per malattie legate all’età, in generale, ci ha portato ad analizzare come questi pazienti sono influenzati da una delle malattie oculari più comuni legate all’età, cioè la degenerazione maculare senile “.

L’degenerazione maculare senile  è la principale causa di menomazione visiva e cecità nelle persone sopra i 65 anni ed è il risultato di un danno alla zona centrale della retina, chiamata macula, che è la responsabile della buona visione centrale. La degenerazione maculare senile è descritta in più fasi – inizio, fase intermedia e avanzata – con perdita della vista che si verifica nell’ultima fase per atrofia o presenza di anormali nuovi vasi sanguigni. Le persone non infette da HIV allo stadio intermedio AMD sono a rischio di progressione verso la fase avanzata della degenazione maculare, ma in genere non perdono la vista.

Per determinare come l’AIDS può contribuire alla AMD, il dottor Jabs e colleghi hanno arruolato 1.825 pazienti con età 13-73 anni con AIDS negli Stati Uniti tra il 1998 e il 2011. I ricercatori hanno classificato fotografie della retina per AMD e messo i partecipanti a confronto nella coorte LSOCA con i dati pubblicati su una popolazione di pari età senza HIV dal Beaver Dam Offspring Study, che ha anche classificato fotografie della retina per le funzionalità AMD. I risultati hanno mostrato che la prevalenza di stadio intermedio AMD nei pazienti affetti da AIDS è stato quasi del 10 per cento e, se si tiene conto di eventuali differenze di età, è stato di circa quattro volte superiore a quella in Beaver Dam Studio.
I ricercatori hanno stabilito che la maggiore prevalenza di AMD nella coorte LSOCA non era collegata ad alcun farmaco o classe di farmaci utilizzati per il trattamento dell’infezione da HIV. Piuttosto hanno sottolineato che la terapia con antiretrovirali anche se ripristina il sistema immunitario non lo riporta alla completa normalità; ci sono cambiamenti immunologici simili a quelli osservati in pazienti che non hanno l’HIV ma che sono molto più vecchi, circa 70 anni di età, ed è un fenomeno definito “immunosenescenza.”

“Anche se il meccanismo di base che porta a questo aumento di diagnosi di degerazione maculare senile nelle persone con HIV non è ancora noto, esso può riguardare lo stato di attivazione immunitaria cronica e infiammazione sistemica presenti in questi pazienti”, ha detto il dottor Jabs.

Il Dr. Jabs e colleghi fanno notare che ulteriori esplorazioni di questi risultati può fornire la possibilità di capire meglio il ruolo della immunosenescenza e dell’infiammazione sistemica nello sviluppo di AMD, che a sua volta potrebbe portare a nuove terapie. I risultati suggeriscono che la terapia antiretrovirale e l’immunoricostituzione nelle le persone con infezione da HIV può causare un accelerato e accentuato invecchiamento.

Fonte:Healthcanal

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