Ma perché gli italiani fanno poco il test?
Il presidente di Lila Milano risponde alla domanda posta da Healthdesk nell’articolo del 16 febbraio
Secondo Massimo Oldrini, presidente della Fondazione Lila Milano, «per mille ragioni non è così comune effettuare questo tipo di test». Gioca un ruolo fondamentale la bassa percezione del rischio. O meglio, la convinzione che l’Hiv riguardi solo gli altri. Secondo una ricerca Gfk Eurisko, lo pensano 8 italiani su dieci. In altre parole, l’80% della popolazione è convinta di non correre alcun pericolo. E non perché sia difficile contrarre il virus, ma perché essenzialmente sarebbero a rischio tossicodipendenti, omosessuali e chi ha relazioni promiscue. Insomma, stigma sociale e disinformazione hanno ancora un peso rilevante. «Subiamo infatti ancora l’eco della cattiva comunicazione fatta negli anni iniziali dell’epidemia: quando si parlava di categorie a rischio, quindi di omosessuali e tossicodipendenti, e non si diceva che anche i rapporti eterosessuali espongono al rischio di contagio se non si usa il preservativo».
Ma un altro fattore deterrente è l’accesso al test. «In Italia – continua Oldrini – c’è una situazione a macchia di leopardo. Il test (lo sancisce la Legge n. 135 del 1990) dovrebbe essere anonimo, gratuito, e accompagnato da un colloquio con personale esperto, che sia di sostegno alla persona che si sottopone al test e veicoli informazioni sui comportamenti a rischio. Ma non ovunque è così. Inoltre se in alcune regioni i punti test si trovano in tutte le asl e in tutti i distretti, in altre invece bisogna percorrere 70 chilometri per poter eseguire il test».
Medici parlate di Aids
Da non sottovalutare, poi, secondo il presidente della Lila Milano, il ruolo dei medici di famiglia: «Raramente parlano con i propri assistiti di questioni legate alla sessualità e anche in caso di malattie fortemente correlate all’Hiv non suggeriscono ai pazienti di fare il test». E il peso della cecità politica: «In Italia non si può parlare di educazione sessuale nelle scuole, non si può promuovere l’uso del preservativo, e l’unica cosa fatta per sensibilizzare all’uso del test è riuscita male. Mi riferisco ai fondi (15 milioni di euro) stanziati per gli “Obiettivi di Piano Sanitario Nazionale 2012”, per finanziare una serie di progetti regionali relativi al test Hiv. Non tutto è andato come auspicato e, insieme a Cittadinanzattiva, la Lila ha denunciato le irregolarità nell’utilizzo regionale dei fondi».
Non si può sparare sul mucchio. L’importante è prevenire
«In ogni caso, in termini di salute pubblica, non è pensabile uno screening generale della popolazione: in media infatti su 100 persone che si sottopongono al test soltanto una risulta sieropositiva. Bisognerebbe invece favorire e semplificare l’accesso al test. A tal fine, in collaborazione con Asl Milano e Anlaids, il San Raffaele offre ogni mese, gratuitamente, il test rapido su saliva per l’individuazione di anticorpi specifici del virus Hiv. Entro pochi minuti dal prelievo del tampone, siamo in grado di fornire il risultato: se è negativo si può escludere con certezza il contatto con l’Hiv, in caso di positività, invece, si procede con l’esame standard su sangue per la conferma. Ma non è un modo per stanare il sommerso: riusciamo a eseguire soltanto intorno ai 2.000 test all’anno nella città di Milano».
«Non ci dimentichiamo però – conclude Oldrini – che il test, su sangue o su saliva, può accertare l’infezione già avvenuta. È cioè uno strumento diagnostico e non di prevenzione. Fare prevenzione significa investire in campagne di comunicazione, formazione e sensibilizzazione per tutelare la salute di tutti».
Fonte: Healthdesk
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