HIV-HCV e grazoprevir/elbasvir

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Notizia da Poloinformativo HIV AIDS

HIV-HCVLa popolazione dei pazienti con co-infezione HIV-HCV rappresenta da sempre un aspetto problematico nella terapia dell’HCV: quali sono i dati di maggiore interesse che emergono dalla sperimentazione delle nuove terapie, in particolare della combinazione grazoprevir/elbasvir, sui pazienti co-infetti?
I pazienti con co-infezione HIV-HCV sono considerati una popolazione ‘difficile’ per la presenza di comorbidità, che rendono più evidenti alcuni effetti collaterali legati al trattamento e per la relativa compromissione del sistema immunitario, che ha storicamente ridotto la possibilità di rispondere alle terapie convenzionali basate su interferone e ribavirina. La disponibilità di strategie terapeutiche senza interferone utilizzabili in pazienti con co-infezione HCV-HIV ha aperto nuovi orizzonti di cura e ha abbattuto un paradigma consolidato riguardo alla minore capacità di risposta al trattamento antivirale di questi pazienti. È stato dimostrato che utilizzando i farmaci antivirali ad azione diretta, i pazienti con co-infezione rispondono altrettanto bene rispetto ai pazienti con mono-infezione e che il risultato terapeutico è assicurato anche dopo il completamento di un ciclo di trattamento breve.
Ad esempio, nello studio di fase III C-EDGE, presentato durante il congresso EASL di Vienna, era compreso un braccio di arruolamento di pazienti con co-infezione HIV-HCV, trattati per 12 settimane con grazoprevir/elbasvir senza ribavirina: i risultati mostrano che il 95% dei 218 pazienti naive con co-infezione HCV-HIV da genotipo 1, 4 o 6, con o senza cirrosi, arruolati nello studio ha mostrato una risposta virologica sostenuta. Si tratta di percentuali di efficacia addirittura inimmaginabili fino a poco tempo fa, che rendono l’eradicazione di HCV una possibilità più che concreta in questa categoria di pazienti, da sempre ritenuti difficili. Il valore aggiunto della combinazione terapeutica grazoprevir/elbasvir sta nel fatto che in questo regime il carico di pillole da associare alla terapia antiretrovirale è limitato ad una sola compressa al giorno e che la ribavirina non è necessaria, e ciò costituisce un ulteriore vantaggio in quanto riduce ulteriormente il numero di compresse ma soprattutto esclude il rischio di anemizzazione che la somministrazione di ribavirina può implicare e, dunque, coniuga in maniera straordinaria tollerabilità ed efficacia. Un altro vantaggio importante per grazoprevir/elbasvir nei pazienti con co-infezione HIV-HCV è quello di avere limitate interazioni farmacologiche con i farmaci antiretrovirali anti-HIV utilizzati in tali pazienti, in particolare con il raltegravir.

Le persone con epatite C e insufficienza renale grave rappresentano una classe di pazienti definita ‘difficile’: perché la farmacocinetica di grazoprevir/elbasvir rende questa combinazione sicura e ben tollerata da questi pazienti?

I pazienti con insufficienza renale cronica e con infezione da virus dell’epatite C rappresentano una categoria molto peculiare, in quanto da una parte l’infezione da HCV può contribuire in modo più o meno esclusivo al danno renale, dall’altra un’insufficienza renale avanzata limita la possibilità di curare l’infezione da HCV. Inoltre, per i pazienti in lista d’attesa per trapianto di rene, la presenza di infezione attiva da HCV può costituire un limite all’accesso al trapianto, in quanto le modalità di selezione per questo intervento non sono uniformi e in alcuni Centri trapiantologici l’eradicazione di HCV costituisce un pre-requisito indispensabile per la collocazione in lista. Dunque, si tratta di una popolazione caratterizzata da una gestione del trattamento antivirale molto delicata nella quale la farmacocinetica e la sicurezza del regime terapeutico impiegato sono fondamentali. La combinazione grazoprevir/elbasvir possiede un profilo farmacocinetico favorevole in quanto i dati preclinici e studi di fase 1 hanno dimostrato che meno dell’1% dei due farmaci viene escreto per via renale e che la loro farmacocinetica non è modificata in maniera sostanziale in soggetti con malattia renale avanzata per la quale è richiesta la dialisi, rispetto a quanto si osserva nei soggetti con normale funzione renale. Inoltre, nemmeno la dialisi modifica il profilo farmacocinetico di grazoprevir/elbasvir in quanto l’estrazione dei due composti attraverso il procedimento dialitico è trascurabile. Questi dati rendono la combinazione grazoprevir/elbasvir utilizzabile sia in pazienti con malattia renale avanzata sia in pazienti già in trattamento dialitico e lo collocano in posizione strategica tra i regimi indirizzati all’eradicazione di HCV in questa categoria di pazienti, nei quali il trattamento antivirale risulta, al momento, privo di alternative rispetto all’interferone e alla ribavirina.

Durante il Congresso EASL in corso a Vienna sono stati presentati i dati dello studio C-SURFER in pazienti con insufficienza renale: i risultati confermano il profilo di grazoprevir/elbasvir nel trattamento di questi pazienti?
Uno dei risultati più interessanti che abbiamo osservato durante il Congresso è rappresentato dalla percentuale di eradicazione di HCV che la combinazione grazoprevir/elbasvir ha permesso di raggiungere in questa categoria di soggetti estremamente difficili, assicurando un profilo di sicurezza e tollerabilità del tutto simile a quello del paziente con normale funzione renale. Nello studio C-SURFER sono stati arruolati 235 pazienti con infezione da genotipo 1 e insufficienza renale grave, di grado 4 o 5 secondo la classificazione KDIGO. Il 76% di questi pazienti era in dialisi e va sottolineato che oltre il 90% era rappresentato da pazienti cirrotici e il 20% erano trapiantati di rene. Tutti sono stati trattati con grazoprevir/elbasvir senza ribavirina per 12 settimane riportando una percentuale di risposta antivirale completa, con eradicazione dell’infezione, nel 93,4% dei casi. Il tasso di discontinuazione della terapia è risultato molto basso, pari al 4% nei pazienti trattati e l’anemizzazione con valori di emoglobina inferiori a 8,5g/dl è stata osservata solo nel 5% dei casi. Questi risultati sono di assoluto rilievo e aprono una prospettiva di trattamento nuova ed estremamente promettente nella categoria dei pazienti con insufficienza renale cronica, anche dializzati e con malattia avanzata di fegato, oltre che nei trapiantati di rene.

Articolo di ISABELLA SERMONTI per LiberoQuotidiano

Fonte in lingua originale da Aidsmap

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Hiv, un nuovo anticorpo blocca la proliferazione del virus

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Una terapia basata su un nuovo potente anticorpo riduce la carica virale nel sangue dei sieropositivi fino quasi a 300 volte e l’effetto dura per 28 giorni. I ricercatori della Rockefeller University sperano di gettare le basi per lo sviluppo di un vaccino
Si chiama 3BNC117 ed è un anticorpo in grado di ridurre temporaneamente la quantità del virus Hiv nei soggetti sieropositivi. È solo un primo passo, visto che la molecola è stata testata su un numero ristretto di pazienti, ma i risultati della fase 1 dei test clinici lascia ben sperare di avere tra le mani una nuova terapia per prevenire, trattare o anche curare l’Hiv.

HIV: Positivo ma non infettivo

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positivo hivGenova. L’Arcigay ospita un incontro su Hiv alla presenza di Giulio Maria Corbelli, attivista dell’associazione Plus Onlus, e di Antonio di Biagio, infettivologo all’Ospedale San Martino di Genova. L’appuntamento è martedì alle 20.30 al Teatro degli Zingari.

L’incontro, dal titolo “Positivo ma non infettivo – Il sesso con una persona con Hiv può essere sesso sicuro”, prende spunto da Partner, il lavoro di ricerca sulle coppie gay sierodiscordanti, ossia le coppie in cui uno solo dei due partner è Hiv positivo.
Alle testimonianze di Corbelli e Di Biagio seguirà una discussione, con tutte le persone partecipanti, per sensibilizzare su tematiche quali: il rischio di trasmettere l’infezione al partner se la carica virale è non rilevabile, quali blocchi psicologici o fisici esistono nella sessualità tra una persona con Hiv e una sieronegativa, come l’Hiv viene percepito nella comunità Lgbt e Msm (maschi che fanno sesso con maschi).

Fonte: genova24.it

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«Io, sieropositiva, dico ai giovani proteggetevi»

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Una storia d’amore tra due città. Poi l’inizio di una convivenza, e il rapporto che si deteriora. Fin quando, prima che lei lo lasci, lui la violenta: «Sapeva che era malato, lo ha fatto apposta». Ora Veronica ha un messaggio per tutti.

«Troppi giovani sottovalutano il problema, hanno rapporti non protetti, sono poco consapevoli dei rischi che corrono. Non sanno che basta un attimo e la vita ti cambia per sempre».
Chi parla è Veronica, 49 anni, di Milano, che convive con l’Hiv da quando ne aveva 27. «Forse i ragazzi non si proteggono perché di Aids non se ne parla quasi più, a parte quando ci sono le giornate dedicate o accade qualche evento eccezionale. Sono poco educati alla prevenzione, che è l’unica cosa che ti salva. Invece, bisognerebbe parlarne, e tanto, perché il virus esiste ancora, esiste davvero e continua a passare da una persona all’altra, silenzioso».

In Italia ogni due ore qualcuno contrae il virus dell’Hiv. In totale si è calcolato che ogni anno si infettano circa 4 mila persone, soprattutto giovanissimi che hanno rapporti non protetti (l’80 per cento) e che non sanno che il virus, una volta contratto, non può più essere eliminato (il 25 per cento).
Sono dati che fanno paura. Roba che forse neanche negli anni ’80, quando di Aids si cominciava appena a parlarne e le campagne informative erano molto più diffuse di adesso, soprattutto nelle scuole. «Ricordo che con una amica decidemmo di fare il test proprio dopo aver assistito all’ennesimo dibattito.Il risultato fu negativo. Decidemmo che da quel momento non avremmo più avuto rapporti non protetti. Non potevo certo immaginare quello che mi sarebbe accaduto».

L’incontro con un ragazzo di passaggio a Milano. L’inizio di una storia d’amore. La decisione di lui di trasferirsi dalla sua città in Lombardia e l’inizio di una convivenza. «Ero innamorata, ma pretendevo lo stesso che usassimo il preservativo. Gli chiesi di fare anche lui il test, così ci saremmo sentiti entrambi più tranquilli. Ma lui continuava a rimandare. Poi una sera, eravamo ormai alla fine del nostro rapporto, mi usò violenza. E ovviamente lo fece senza preservativo. È bastata quell’unica volta». La voce di Veronica si spezza, il trauma è ancora forte, ed è doloroso raccontare la propria esperienza. Se ha deciso di farlo è per sensibilizzare chi legge, e soprattutto i più giovani.

Il 3, 4 e 5 aprile nelle piazze, nei supermercati e negli ospedali di tutta Italia saranno allestiti 2200 banchetti dove i volontari di AnlAids, l’associazione che combatte contro questa terribile malattia, sensibilizzando e promuovendo anche la ricerca, offriranno a chi passa un bonsai, la pianta ormai diventata simbolo della lotta all’Aids. «Curarli è un modo per ricordarsi che l’impegno per fermare questo virus deve essere quotidiano, come quotidiane sono le cure di cui hanno bisogno le persone che vivono con l’Hiv», dicono dall’associazione.

E Veronica aggiunge: «Quel “vivono con l’Hiv” è importante, va sottolineato. Io ci convivo da 22 anni con questo virus, e come me siamo in tanti. Oggi, grazie ai farmaci, si può scongiurare a lungo il passaggio alla fase della malattia conclamata, si può condurre una vita quasi normale. Io lavoro, vado a teatro, ho dei fidanzati».

Certo, se glielo avessero detto quando scoprì che aveva contratto il virus non ci avrebbe creduto. «Fu uno choc. Un giorno quel ragazzo, che ormai era diventato un ex, mi chiamò. Mi disse che si trovava in ospedale. Scoprii che aveva l’Aids, e che lo aveva sempre saputo. Che quando io gli chiedevo di fare il test, lui rimandava perché conosceva già il risultato. Quando mi usò violenza, sapeva che avrebbe potuto infettarmi».

«Feci anche io il test e il risultato non lasciò adito a dubbi. Dopo, ero terrorizzata. Non sapevo come comportarmi, come dirlo ai miei genitori. Deciso di non dirglielo, temevo che mi giudicassero. All’epoca, negli anni ’80, l’Aids veniva ancora associata solo ai gay e al mondo della prostituzione. Avevo paura del loro giudizio. Mi dissi: “Glielo farò sapere più avanti”. Invece non l’ho mai fatto, sono passati tanti anni e ancora la mia famiglia non sa niente».

Come, del resto, non lo sanno tanti dei suoi amici. «La gente ha ancora troppa paura. Lì per lì fanno finta di niente, ma poi ti isolano. Glielo leggi in faccia che hanno paura di toccarti, come se tu potessi contagiarli solo sfiorandoli. Allora molti come me non dicono niente. Le strade d’Italia sono piene di persone che hanno l’Hiv e che non lo fanno sapere».

Raramente Veronica lo dice ai suoi fidanzati. «L’ho fatto solo due volte. I miei partner mi hanno capita. Con il secondo la storia è durata più a lungo, ma si vedeva che aveva paura a toccarmi. Dopo aver scoperto la verità, non era più spontaneo come prima, ed è finita».

«Per anni sono stata in terapia, dovevo affrontare i miei fantasmi. All’inizio ero convinta che sarei morta presto, e non è facile vivere con questa consapevolezza, e accettarla. In seguito, realizzai che non avrei mai potuto avere figli. È stato il momento più difficile».

Anche se con le cure moderne le cose sono cambiate. «Qualche anno fa un medico mi ha detto: “Signora, lei lo sa che se vuole può fare un bambino?”. Mi ha spiegato che con le nuove terapie molte mamme sieropositive danno alla luce bambini sani. Sono scoppiata a piangere, poi però non me la sono sentita di tentare». Scoppia a piangere: «Non è facile rinunciare all’idea di avere un figlio. Non è facile vivere nel silenzio. È come essere condannata senza colpa. Per questo è importante che se ne parli. Non posso accettare l’idea di tutti quei ragazzi giovanissimi lì fuori, che fanno sesso senza protezione, inconsapevoli dei rischi ai quali vanno incontro. Devono sapere quello che rischiano, devono pensarci e proteggersi, prima che sia troppo tardi».

FONTE: vanityfair.it

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HIV/HCV : cannabis e resistenza insulinica

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resistenza insulinica

Il consumo di cannabis è associato ad un ridotto rischio di resistenza insulinica nelle persone con co-infezione HIV / HCV , secondo uno studio condotto da ricercatori francesi riportato nell’ edizione on line di Clinical Infectious Diseases.
I consumatori di cannabis – indipendentemente dalla frequenza di utilizzo – avevano il 60% in meno di probabilità di avere resistenza all’insulina (IR) rispetto ai non utilizzatori.

“Questo è il primo studio longitudinale che documenta il rapporto tra la riduzione del rischio di IR e cannabis in una popolazione particolarmente interessata dalla resistenza insulinica ” hanno commentato gli autori.
L’infezione da HCV è associata ad un aumentato rischio di insulino-resistenza e diabete di tipo 2. Una preoccupazione in più per la salute anche associata alla scarsa risposta alle terapie anti-HCV a base di interferone.

Molte persone con HCV sono co-infette con HIV, altra infezione associata a insulino-resistenza. Le cause possono includere gli effetti infiammatori dell’HIV non trattato , gli stili di vita, e disturbi del metabolismo lipidico causato da alcuni farmaci antiretrovirali.

Il consumo di cannabis è comune tra le persone con HIV e HCV. Può aumentare l’appetito (e aumento di peso), ma il suo uso è stato anche associato con obesità ridotta, e può quindi ridurre il rischio di insulino-resistenza.
Non si sa molto degli effetti del consumo di cannabis sul rischio di insulino-resistenza e diabete. I pochi studi che sono stati condotti hanno dimostrato che l’uso del farmaco è stato associato a un calo di insulina a digiuno, alla riduzione del rischio di resistenza all’insulina e a un minor rischio di diabete.

I ricercatori francesi dello studio ANRS CO13 HEPAVIH hanno monitorato 703 persone con HIV e HCV per 60 mesi per valutare se l’uso di cannabis ha ridotto il rischio di insulino-resistenza.

I partecipanti allo studio sono stati valutati al basale e ogni dodici mesi. Ad ogni visita hanno completato un questionario relativo alla frequenza del loro uso di cannabis nelle ultime quattro settimane – mai, a volte, spesso, tutti i giorni. I dati hanno tenuto conto anche di altre variabili associate con l’insulino-resistenza, definite come HOMA-IR> 2.77.
La maggior parte (n = 459) dei partecipanti erano uomini e l’età media era di 45 anni. Alla prima visita di studio, l’uso di cannabis recente è stata riportata dal 45% dei partecipanti, il 21% ha usato il farmaco di tanto in tanto, il 12% ha riportato un uso regolare e il 13% un consumo di cannabis quotidiano. Il valore di HOMA-IR medio al basale era 2,06.

Complessivamente, il 46% dei partecipanti aveva un valore HOMA-IR sopra 2.77 durante il follow-up.

Alla prima analisi degli autori hanno dimostrato che il consumo di cannabis a qualsiasi livello è stato associato ad un ridotto rischio di insulino-resistenza. Altri fattori associati ad un ridotto rischio di resistenza all’insulina includevano bere tre o più tazze di caffè al giorno, differenza di genere, e carica virale HIV rilevabile. La staduvina (d4T) era l’unico farmaco anti-HIV associato a insulino-resistenza. La cirrosi epatica ha aumentato il rischio di insulino-resistenza di circa il 50%, e l’obesità ha aumentato il rischio di quattro volte.

All’analisi multivariata, il rapporto tra l’uso di cannabis a qualsiasi livello e riduzione del rischio di insulino-resistenza (OR = 0.4; 95% CI, 0,2-06) è stato confermato dopo aver tenuto conto del genere, della carica virale HIV, dell’uso di stavudina e del consumo di caffè.
Le analisi di sensibilità hanno confermato l’associazione tra uso di cannabis e riduzione del rischio di insulino-resistenza.

I ricercatori hanno fatto notare che l’associazione tra l’uso di cannabis, l’obesità e la riduzione del rischio di insulino-resistenza è in linea con precedenti ricerche condotte negli Stati Uniti e con altri studi di laboratorio.

“Ci sono diverse terapie farmacologiche a base di cannabis che vengono utilizzate per indicazioni specifiche (ad esempio, riduzione dei sintomi della sclerosi multipla),” concludono gli autori. “I vantaggi di questi prodotti per i pazienti interessati da un aumento del rischio di insulino-resistenza e diabete devono essere valutati nella ricerca e nella pratica clinica.”

Reference

Carrieri MP et al. Cannabis use and reduced risk of insulin-resistance in HIV-HCV infected patients: a longitudinal analysis (ANRS HEPAVIH CO-13). Clin Infect Dis, online edition, 2015.

Fonte: Aidsmap

Traduzione e adattamento a cura di Poloinformativohiv
In caso di utilizzo si prega di citare la fonte

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Il punto su costi e distribuzione dei nuovi farmaci anti HCV

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I nuovi farmaci per sconfiggere il virus dell’epatite C saranno made in Latina. E’ la scelta di due multinazionali per la produzione di queste molecole a livello globale. E l’Italia è anche il Paese dove il numero di pazienti con il fegato minato dal virus Hcv è percentualmente da capogiro. L’obiettivo del servizio sanitario è quello di eliminare il virus dal nostro Paese.

Medicine sotto stretto controllo, la gestione è centrale
I farmaci ci sono, ne arriveranno anche altri, ma hanno il problema dei costi. Si è scelta così la via della selezione dei pazienti in base alla gravità per arrivare, nel tempo, a zero epatite C in Italia. Nel tempo. L’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) ha pianificato una strategia molto moderna: un algoritmo di selezione dei pazienti. Che affiancato al recente registro nazionale dovrebbe consentire di vincere la sfida. Anche gli accordi sui costi (in alcuni casi secretati per richiesta dei produttori) hanno premiato la nostra agenzia, a tal punto da essere «invidiata» da altri Stati europei che avevano già dato il via libera al mercato di questi preziosi farmaci.

Dal 24 febbraio (Gazzetta ufficiale) il simeprevir è disponibile in Italia ed è partita la cura anti-virus dell’epatite C senza interferone e ribavirina. Non è in farmacia, ma solo in ospedale. E solo per i malati che sono monitorati (vedi algoritmo Aifa) nell’assunzione del medicinale. Una cura gratuita ma tenuta sotto stretta sorveglianza economica. Tutto ciò dopo l’annuncio della multinazionale Janssen di aver individuato nello stabilimento di Latina il produttore del farmaco per tutto il mondo e dopo il successo della lunga trattativa sul prezzo del simeprevir in Italia, finalmente è partita la prima vera possibilità di eradicare l’epatite C in un Paese.

Farmaci «rivoluzionari»
L’Aifa, l’11 marzo, ha anche raggiunto l’accordo per la rimborsabilità della combinazione dasabuvir e ritonavir per pazienti affetti da epatite cronica C (genotipo 1 e 4). E anche in questo caso la multinazionale produttrice (AbbVie) ha scelto la zona di Latina, il loro stabilimento è a Campoverde di Aprilia, sia per il mercato italiano sia estero. Gli infettati dal virus dell’epatite C (Hcv) in Italia costano attualmente al Servizio sanitario nazionale circa un miliardo di euro l’anno.

Siccome si tratta di una malattia mortale (si «cura» con trapianto oppure non si cura), si può ben dire che far guarire chi ne è affetto con una o due pillole al giorno è una scoperta rivoluzionaria. A cui si è arrivati con fatica, dopo anni e anni di ricerca e investimenti milionari. Così, quando questi farmaci tagliano il traguardo il costo trattato lievita. E non solo perché si deve recuperare l’investimento, ma anche per fare business. Peraltro, in questo caso, il prezzo elevato potrebbe essere cancellato nel giro di sei settimane di nuova cura (2 mesi al massimo): la promessa è, infatti, la guarigione al termine del periodo previsto nella quasi totalità dei casi. Il costo tiene conto di tutto ciò.

Nonostante la crisi l’Italia si impegna a eradicare l’epatite C
Il sofosbuvir, il primo approvato, tocca i circa 80 mila euro nel mondo (i 50 mila in Italia, si dice). Una malattia incurabile che diventa guaribile in poco tempo. Vera rivoluzione, ma solo per ricchi laddove non esiste un servizio sanitario nazionale. I poveri possono anche morire. L’Italia, che ha un servizio sanitario nazionale, sta cercando la via per preservare la sua filosofia di sanità universale e arrivare a curare tutti, cominciando dai più gravi per restare nel budget risicato, ma con l’obiettivo di eradicare il virus nell’arco di qualche anno. Al massimo entro il 2030, trasferendo la voce epatite C ai libri di Storia della medicina così come già accaduto in passato con la peste o con il vaiolo.

I costi non sembrano sostenibili nell’Italia odierna e i conti stentano a tornare, ma la determinazione del ministro della Salute Beatrice Lorenzin e del direttore generale dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) Luca Pani hanno posto le basi di una roadmap anti epatite C per raggiungere l’obiettivo del tutti curati gratuitamente. Partendo dai malati gravi, per arrivare a quel milione (forse un milione e mezzo) di infettati ipotizzato (o stimato), anche perché a volte senza diagnosi.

Il costo che si assorbirà nel medio-lungo periodo
Per dare idea di che cosa si parla basta un piccolo gioco di calcolo: un milione di epatitici C per 50-70 mila euro (occorrono due di questi farmaci per guarire 9 malati e mezzo su dieci) porta a un totale di 50-70 miliardi di euro. Metà dell’intero fondo previsto per il Ssn nel 2015. Impossibile fare tutto subito, ma piano piano si può arrivare all’obiettivo: dai malati candidati al trapianto, da quelli che hanno più di metà fegato già non più funzionante (per la cicatrice, cirrosi, che via via uccide l’intero organo e quindi l’intero organismo) o prima che l’infezione continua non si trasformi in tumore (epatocarcinoma).

Nel medio-lungo termine, dunque, tale costo si rivelerà un risparmio per il servizio sanitario: in vite umane, in disabilità croniche, in spese dirette e indirette. Gli esperti in economia sanitaria sottolineano l’importanza di avere tra le mani nuove cure costosissime ma definitive. «I pazienti ufficiali con epatite C attualmente trattati o in osservazione dal servizio sanitario sono circa 370 mila, a cui vanno aggiunti 18-25 mila individui detenuti nelle carceri italiane», dice Massimo Colombo, università di Milano, epatologo di fama internazionale. Finalmente si conoscono i numeri, grazie a un registro nazionale divenuto d’obbligo di fronte al costo delle nuove cure. Occorre pianificare in base a dati precisi. O quasi. «Partendo dai dati, siamo andati a valutare qual è l’onere reale a carico dello Stato – aggiunge Colombo -. Resta il fatto che noi medici dovremmo spiegare ai pazienti perché c’è la cura e non possono assumerla subito, che dovranno aspettare e aggravarsi per venire guariti».

L’analisi economica
L’analisi economica spetta a Francesco Mennini, economista sanitario dell’università Tor Vergata di Roma: «Abbiamo distinto i costi diretti da quelli indiretti. I primi, quelli cioè collegati all’assistenza sanitaria, al 2013 sono oltre 400 milioni di euro. I secondi, gli indiretti, che riguardano la perdita di produttività dovuta alle giornate di assenza dal lavoro, ammontano a circa 640 milioni euro. Di conseguenza, l’onere complessivo di trattamento e monitoraggio della malattia si attesta intorno al miliardo di euro all’anno.

Considerando poi una suddivisione per stadio di malattia, emerge che in termini di costi diretti la cirrosi è al primo posto, con oltre 200 milioni di euro sostenuti dal servizio sanitario, seguita dall’infezione da Hcv cronica con 125-126 milioni di euro, e dai trapianti di fegato che pesano per circa 40-45 milioni di euro. Infine, i 26-27 milioni di euro legati al carcinoma epatico». Quindi un peso economico molto importante per il trattamento e il monitoraggio di questi pazienti. La soluzione? Far guarire questi malati. E oggi c’è il modo. Con un risparmio virtuoso che, alla lunga, donerà ossigeno all’asfittico servizio sanitario italiano. Entro quanto tempo? Prosegue Mennini: «Considerando un modello che ci ha permesso di prevedere che cosa potrebbe accadere dal 2015 fino al 2030 con l’introduzione dei nuovi farmaci, emerge che ci sarebbe una fortissima riduzione a partire dai primi 20 mesi nella prevalenza dei casi. C’è, poi, una consistente riduzione di morti da epatocarcinoma, del numero dei trapianti e, a partire dal secondo anno di inizio di trattamento, anche una riduzione dei costi diretti sanitari».

Quali sono in nuovi farmaci
I nuovi farmaci: quattro sono quelli già approvati e altri tre sono in arrivo, tutti garantiscono la guarigione nella quasi totalità dei casi. Dopo il sofosbuvir, il primo di nuova generazione arrivato in Italia, ecco ora il simeprevir. I due abbinati guariscono senza bisogno di interferone e di ribavirina. Effetti collaterali pari a zero, soprattutto rispetto a interferone e ribavirina. Un fondo da un miliardo di euro è già stato previsto ed il ministero della Salute ha inviato i carabinieri del Nas nelle Regioni per verificare lo stato di erogazione dei farmaci a fronte dei ritardi denunciati. Le associazioni dei malati annunciano che le Regioni che non garantiranno i nuovi medicinali verranno segnalate all’autorità giudiziaria.

FONTE: corriere.it

L’articolo Il punto su costi e distribuzione dei nuovi farmaci anti HCV è uno degli articoli di Poloinformativo HIV AIDS.

Nps dice no alla PrEP: “Molto meglio il preservativo ”

 

preservativoHiv/Aids. Dagli Usa arriva la PrEP, terapia antiretrovirale “preventiva” per le persone sane. Nps dice no: “Molto meglio il preservativo”

Ha senso prescrivere farmaci antiretrovirali, con tutte le loro ripercussioni sullo stato di salute, solo per evitare di usare il preservativo nei rapporti sessuali? Noi pensiamo di no e non solo per un problema di sostenibilità economica. Ma soprattutto perché non vogliamo che passi il concetto che basti una “pillola” per non contrarre la malattia. Dimenticando l’importanza di una vera cultura della prevenzione nei rapporti sessuali

Per cominciare a parlare di PrEP che sta per Pre-Exposure Prophylaxis è bene fare una certa premessa, poiché si tratta di un argomento particolarmente specifico e non noto ai non addetti ai lavori.
L’Hiv/Aids ormai ha compiuto oltre 30 anni e la ricerca scientifica è quel settore che ha compiuto i maggiori progressi raggiungendo oggi ben 6 classi di farmaci antiretrovirali con circa 20 molecole a disposizione e diversamente combinabili tra loro a “basso” impatto per la qualità della vita del paziente che le assume tutti i giorni.
A dispetto dei progressi in termini di cura, in molti paesi, tra cui la nostra Italia, su temi sociali e di prevenzione non sono stati fatti altrettanti passi in avanti, tutt’altro.

La conferma di ciò a casa nostra la forniscono i dati ministeriali che registrano circa 4.000 nuove infezioni all’anno ormai da alcuni anni a questa parte. Tra i farmaci che curano l’Hiv da poco meno di una decina di anni c’è questo combinato N(t)RTI di nome Truvada (tenofovir ed emcitrabina) davvero molto efficace nel ridurre la replicazione virale . E’ necessario subito chiarire che questi farmaci non sono delle semplici pillole ma bensì dei antiretrovirali compreso quindi il Truvada. Quindi per iniziare sgomberiamo il campo da possibili equivoci e precisiamo che la parola PrEP sta a significare non una semplice pillola ma bensì una farmaco vero e proprio e della categoria dei chemioprofilattici antivirali.

I diversi studi sulla PrEP. Negli ultimi anni sono stati avviati degli studi clinici in America e in UK sull’utilizzo di questo farmaco come profilassi pre-esposizione dato l’incremento di diagnosi da Hiv soprattutto nella popolazione MSM (maschi che fanno sesso con maschi) rispetto all’incidenza generale, e ad oggi i tre studi principali Proud, Ipergay e IPrex-ole sono i più rinomati e quelli che richiamano la maggiore attenzione anche nella conferenze mondiali. Questi studi vengono condotti in modi diversi tra loro (che vedremo più avanti nel dettaglio) al fine di dimostrare che l’assunzione di Truvada nei soggetti sani riduce l’acquisizione dell’Hiv fino all’86% (dati ultimi del Croi 2015).

Lo studio Proud nello specifico era partito nel 2011 segnalando un’efficacia del 92% di protezione rispetto all’infezione da Hiv in coppie monogame così come riporta il sito ufficiale del CDC, ma poi i criteri di arruolamento sono cambiati e anche i risultati. Ci piace ricordare a questo punto che anche l’uso ottimale del condom ha risultati notevoli che si attestano al 98% di efficacia di protezione non solo da Hiv ma anche dalle restanti infezioni sessualmente trasmissibili.

Se guardiamo all’andamento dell’infezione in Italia da Hiv solo nel 2013 i casi tra MSM in totale tra italiani e stranieri sono 1255 + 163 ovvero il 45.9% delle nuove infezioni con una età mediana che si attesta intorno ai 36 anni, e quindi possiamo dire che fanno quasi il pari con la popolazione eterosessuale tutta. Un dato in linea, anzi leggermente più basso, di quello che si registra per esempio nella vicina Spagna, dove l’ultimo aggiornamento è del 2012 e le infezioni riportate tra MSM sono il 51,1% rispetto al 30,6% tra gli eterosessuali. Ma per capire da dove origina il fenomeno PrEP dobbiamo leggere i dati USA secondo i dati ufficiali del CDC (aggiornati a settembre 2014), gli individui MSM con HIV sono il 57% di circa 1 milione e 100mila persone con HIV negli USA, percentuale corrispondente a 657.800 persone. Il dato della popolazione sieropositiva include le persone non consapevoli del proprio stato sierologico.

Si capisce bene che con questi numeri l’America ha deciso di affrontare la questione in qualche modo, e la modalità si chiama anche PrEP ovvero l’uso di farmaci antiretoivirali in chiave preventiva. Le associazioni community based italiane stanno seguendo da tempo la vicenda e con pareri diversi tra loro. A sintesi di questo è recente la firma da parte di alcune di loro del documento di appello per la profilassi PrEP durante l’ultima conferenza Croi 2015 a Seattle, dove chiedono all’Ema (European Medicines Agency) di dare l’opportunità di scegliere anche la PrEP come strumento di prevenzione.

Nps ha una posizione molto diversa dalle altre associazioni di persone che vivono con Hiv in Italia poiché da sempre si è schierata per una cultura della prevenzione basata sulla responsabilizzazione delle coscienze individuali e l’assunzione di comportamenti sessuali corretti a tutto tondo che tutelino la salute del singolo e quindi di conseguenza della collettività. Rimaniamo sconcertati dall’idea che si proponga l’assunzione a persone sane di un farmaco che si usa per curare le persone già affette dal virus dell’Hiv, pur di sfuggire in qualche modo all’uso de condom e di parlare di condom!

Noi come persone con Hiv sappiamo bene cosa significa prendere la terapia Arv tutti i giorni con gli effetti che a lungo termine ne conseguono, e non possiamo condividere l’idea di medicalizzare il sesso li dove esistono altri strumenti validi di protezione e li dove non ci sono dati sulla sicurezza a lungo termine per chi assume questo farmaco, ma soprattutto, ripetiamo, in soggetti sani. La storia delle terapie antiretrovirali ci ha insegnato come ad ogni uscita di un nuovo farmaco dopo i naturali proclami di giustificato successo si sono avuti tutti i dati e gli studi clinici necessari sugli effetti collaterali.

Del Truvada, per esempio, sappiamo bene il danno renale a dieci anni dalla sua entrata sul mercato, ed infatti come vedremo nell’approfondimento allegato agli studi clinici PrEP ( farmaci antiretrovirali) ci sono i primi dati in merito. L’uso corretto del condom è parte fondante dei nostri interventi di prevenzione della scuole tra i giovani come unico strumento di tutela della salute da Hiv e da tutte le altre malattie sessualmente trasmesse: Epatiti, Hpv, Clamidya, Herpes simplex, Condilomi, Trichomonas, Sifilide.

La profilassi pre esposizione lavora infatti solo su un livello, cioè come difesa contro l’Hiv, per altro con un’efficacia solo del 78% (dato studio Iprex), mentre il condom offre protezione nel 98/99% dei casi, non solo per l’Hiv ma anche per tutte le altre infezioni sessualmente trasmissibili (Ist). Ritengo che le associazioni che propugnano l’utilizzo della PrEP dovrebbero ragionare più attentamente sui dati a disposizione, soprattutto quelle che si occupano di msm, e tornare invece a parlare di condom: la mancanza di protezione nel corso di rapporti sessuali ha causato infatti il ritorno di alcune Ist che si credevano debellate e che, a loro volta, costituiscono un terreno fertile per infettarsi anche di Hiv.

Sappiamo per esempio dal rapporto Ecdc che in Europa il 48% dei nuovi casi di sifilide si registra tra gli MSM, e anche se il dato italiano non è conosciuto perché meno del 10% dei medici lo comunica (benché sia per legge obbligato a farlo), è ipotizzabile che gli omosessuali italiani non se la passino meglio.

Nel Piano Nazionale della Prevenzione 2014 – 2018 se tra i macro obiettivi c’è la riduzione delle infezioni primarie da una parte ( per cui tra queste anche l’Hiv), dall’altra non c’è nessun accenno all’educazione sessuale propedeutica a questo scopo come unico strumento logico di prevenzione. La nostra associazione ha tra le sue mission quella di prevenire le infezioni da Hiv e anche le altre Ist attraverso interventi di peer educator e testimonial che sulla base del proprio vissuto di persone con Hiv e di attivisti spiegano ai ragazzi come tutelare il loro diritto alla salute sancito dalla nostra costituzione (art. 32) e come combattere ogni forma di discriminazione.

Quindi il nostro lavoro si fa sempre più arduo considerando una società e una scuola dove non ci sono interventi di governo strutturati che parlino ai ragazzi della loro sessualità, insieme a tematiche come questa che all’interno di un discorso totalmente assente sulla prevenzione e sull’educazione all’uso del preservativo rischiano di creare ancora maggior confusione nella mente dei giovani e dei gruppi vulnerabili.

Una precisazione fondamentale è che questo approccio alla PrEP ( farmaci antretroivirali) nasce dagli USA che hanno una non piccola differenza col nostro sistema sanitario italiano: il loro è di tipo assicurativo privato mentre il nostro, che è tra i migliori del mondo, è di tipo assistenzialistico, gestito dal nostro stato italiano. I recenti dati del report Aifa ci dicono come la spesa sanitaria farmaceutica ospedaliera sia troppo alta in Italia proprio anche grazie alla voce dei farmaci Arv e per quel che riguarda il sistema americano è dimostrato che la spesa così come è organizzata è eccessiva anche se i prezzi sono regolati da governo- assicurazioni – associazioni mediche.

Condividiamo la possibilità che alcuni gruppi selezionati possano avere il diritto di ricevere la PrEP, come ad esempio i detenuti, IDU, transgender e sex worker. Questi ultimi spesso si trovano a dover negoziare per lavoro l’uso del condom, ma noi ravvisiamo già qualche perplessità nelle coppie sierodiscordanti che desiderano avere una gravidanza per due motivi principali: sia perché esiste in Italia la possibilità di seguire un percorso ad hoc che è la PMA (uno dei successi è stato far inserire gli uomini con Hiv/Epatite all’interno di questo percorso con la L.40) sia perché a carica virale zero ci si può ritenere già protetti rispetto ad una gravidanza senza rischi di contagio.

Per cui la questione della sostenibilità del costo delle PrEP (dei farmaci chemioterapici antivirali) è di fondamentale importanza e deve far riflettere la community tutta delle persone con Hiv sulla mancanza di margini economici e sosteniamo che chi vuole questo strumento debba pagarselo di tasca propria. Infine, vi chiediamo: se uno dei vostri figli adolescenti si trovasse a dover scegliere tra un condom e dei famaci antiretrovirali (PrEP) voi genitori cosa consigliereste…?

Prendiamo quindi le distanze dall’appello firmato da alcune associazioni italiane in occasione del CROI 2015 e da chi sostiene e sosterrà l’assunzione di farmaci curativi come fossero farmaci preventivi solo perché non si riesce a parlare con franchezza di comportamenti responsabili nell’ambito di una rivoluzione della cultura della prevenzione.

Rosaria Iardino
Presidente onorario Nps Onlus

Fonte: Quotidianosanità

L’articolo Nps dice no alla PrEP: “Molto meglio il preservativo ” è uno degli articoli di Poloinformativo HIV AIDS.

I più recenti studi sulla PrEP

 

PrEPAlla conferenza sull’HIV CROI recentemente conclusasi a Seattle sono stati aggiornati i risultati degli studi PROUD e IPERGAY condotti in Europa sulla profilassi pre-esposizione o PrEP.
Lo studio PROUD condotto nel Regno Unito e presentato da Sheena McCormack ha coinvolto dei maschi gay. Altri maschi che fanno sesso con maschi che afferiscono alla rete di cliniche per le malattie sessuali del paese. Lo studio è stato disegnato per somigliare quanto più possibile alla vita reale: non erano previsti esami particolarmente sofisticati per assicurarsi che le persone fossero sieronegative all’inizio dello studio ma solo il normale test HIV, e lo stesso per accertare la salute dei reni (l’uso di tenofovir può essere sconsigliato per chi ha problemi renali).

I partecipanti sono stati randomizzati, cioè assegnati casualmente a due bracci di studio: nel primo è stato dato loro immediatamente la PrEP consistente in una pillola di questo farmaco da assumere una volta al giorno; per l’altro gruppo l’offerta della PrEP era rimandato di un anno.

Oltre 500 persone hanno partecipato allo studio. A ottobre dello scorso anno il gruppo incaricato di esaminare i dati di sicurezza ed eticità dello studio ha raccomandato di offrire la PrEP anche ai partecipanti assegnati al gruppo in cui l’offerta era rinviata; questo perché il numero di infezioni viste in questo gruppo era assai più alto rispetto a quelli che assumevano già la PrEP. Ci sono stati infatti tre infezioni nel gruppo che ha preso da subito la PrEP (una di queste probabilmente era già sieropositivo al momento dell’inizio dello studio o ha acquisito l’infezione prima che la PrEP potesse fare effetto perché ha avuto un test positivo pochi giorni dopo l’inizio dello studio) mentre nel gruppo che non assumeva ancora la PrEP ci sono state 19 infezioni.

Questo indica una incidenza – cioè una percentuali di nuove infezioni – tra i partecipanti del gruppo che aveva rinviato la PrEP estremamente alta, quasi del 10%. In generale, in questo studio la PrEP sembra ridurre il rischio di infezione dell’86%, un dato che – considerato che le condizioni di studio assomigliano molto alla vita reale – che McCormack considera molto alto. McCormack ha poi presentato anche i dati di sicurezza, cioè i problemi manifestati da chi assumeva la PrEP: 28 persone hanno interrotto l’assunzione del farmaco per problemi medici. Il numero di partner sessuali e i tassi di altre malattie a trasmissione sessuale erano simili nei due gruppi.

Ora sono in corso due studi per vederne il costo-efficacia di questa strategia, cioè se il costo del farmaco viene compensato dai costi sanitari. Nel secondo studio europeo sulla PrEP presentato alla conferenza CROI di Seattle si chiama IPERGAY ed è stato illustrato da Jean-Michel Molina.

Si tratta di uno studio randomizzato, doppio cieco, controllato da placebo: significa che i partecipanti venivano assegnati casualmente a due gruppi (randomizzazione), che né i partecipanti né i loro medici sapevano quale fosse), e che uno dei due gruppi prendeva un placebo cioè un farmaco che assomiglia in tutto e per tutto a quello vero ma che in realtà non contiene alcun principio attivo. Lo schema di somministrazione della PrEP era “on demand”: i partecipanti dovevano assumere due pasticche 24 prima di avere un rapporto sessuale, un’altra entro 24 dopo questo rapporto e un’altra ancora dopo altre 24 ore.

Questo permetteva di limitare l’assunzione del farmaco ai periodi in cui ce ne era davvero bisogno, cioè quelli di attività sessuale. Il numero mediano di partner sessuali era di otto negli ultimi due mesi tra i partecipanti (significa che metà dei partecipanti ne aveva più di otto, l’altra metà di meno, con un range tra 6 e 15). Non ci sono stati cambiamenti nel comportamento sessuale dei partecipanti nel corso dello studio, cioè le persone non hanno avuto più partner o usato meno il preservativo perché assumevano la PrEP.

In tutto 16 partecipanti hanno preso l’infezione da HIV: 14 erano nel gruppo che prendeva placebo, 2 in quello che prendeva la PrEP, ma questi due avevano smesso di prendere la PrEP per effetti collaterali da alcuni giorni al momento in cui hanno acquisito l’infezione. Non ci sono state differenze negli effetti collaterali tra i due gruppi (sì, anche il placebo può avere effetti collaterali). Una sola persona ha interrotto il trattamento per problemi dovuti al farmaco, probabilmente scatenati da una interazione con un altro farmaco che stava assumendo.

Anche per questo studio, lo scorso ottobre il gruppo etico ha raccomandato di chiudere il gruppo placebo e offrire a tutti i partecipanti la possibilità di prendere la PrEP. È bene ricordare che la PrEP non è ancora stata approvata in Europa e non è quindi disponibile e che due dei tre studi sono sponsorizzati dall’azienda che produce il Truvada!

Rosaria Iardino
Presidente onorario Nps Onlus

Fonte: Quotidianosanità

L’articolo I più recenti studi sulla PrEP è uno degli articoli di Poloinformativo HIV AIDS.

Onu e droghe : l’ora della svolta

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drogheArticolo di Grazia Zuffa per la rubrica di Fuoriluogo su il Manifesto dell’11 marzo 2015.

Nell’aprile 2016 si svolgerà a New York l’Assemblea Generale Onu sulle droghe (Ungass 2016), ma già questa settimana, alla riunione annuale della Commission on Narcotic Drugs (Cnd) cominceranno i preparativi.
Per comprendere il contesto in cui si svolgerà Ungass 2016, bisogna risalire alla precedente Ungass del 1998. L’Assemblea Generale del 1998 segnò il culmine della retorica della “lotta alla droga”: con lo slogan: a drug free world, we can do it   e con la Dichiarazione Politica finale che fissava come obiettivi la “eliminazione della coca, del papavero da oppio e della cannabis entro il 2008”.
La Dichiarazione Politica diede la spinta ad una nuova escalation della war on drugs: si vedano i famigerati Plan Colombia e Plan Dignidad del Cile, che hanno causato la militarizzazione dei territori e lo sfollamento forzato di migliaia e migliaia di contadini dai campi avvelenati dalle fumigazioni. Inoltre, dalla fine degli anni novanta al 2006, esplode l’incarcerazione per reati di droga in Usa, la gran parte per semplice possesso.
Nel 2009, alla Cnd che aveva il compito di valutare i risultati della strategia uscita da New York dieci anni prima, la Dichiarazione Politica, lungi dal prendere atto di aver fallito l’obiettivo di “eliminare le droghe”, usò l’escamotage di rinnovarlo fino al 2019. Ancora nella stessa Dichiarazione, il termine “riduzione del danno” fu censurato e sostituito dall’ambiguo termine “servizi di supporto”: tanto che sedici stati membri (per lo più europei, ma non solo) firmarono una dichiarazione a margine chiarendo che i “servizi di supporto” erano da tradursi  in “misure di riduzione del danno”. Questa semplice postilla segnava però un punto di svolta, decretando la fine dell’unanimismo.
Dalla seconda decade del 2000, si assiste ad una forte accelerazione nella riforma della politica delle droghe. Il regime internazionale è contestato apertamente nei paesi che più ne sopportano il peso: tanto che nel 2012, la risoluzione finale della Organizzazione degli Stati Americani (OAS), che raccoglie gli stati sia del Sud che del Nord America, nella riunione annuale di Cartagena, rilasciò una dichiarazione finale critica della war on drugs (vedi in questa rubrica Amira Armenta, 20/6/’12). E l’anno successivo la stessa OAS pubblicò un rapporto (Scenarios for the drug problem in the Americas 2013-2025) che invitava a valutare opzioni alternative alla proibizione.
Ancora più importante, forme alternative di regolamentazione delle droghe sono già in via di sperimentazione in varie parti del mondo. La Bolivia ha legalizzato l’uso tradizionale della foglia di coca, riconfermando l’adesione alle Convenzioni con questa importante riserva. In Usa, quattro stati hanno legalizzato la marijuana a scopo ricreativo: a questi, probabilmente si aggiungerà la California, il più importante fra gli stati, nei prossimi mesi. Ma il cambiamento è anche a livello di amministrazione, se è vero che Obama ha deciso di non far valere la competenza federale e ha lasciato autonomia alle sperimentazioni dei singoli stati. Ancora, nel dicembre 2013, il parlamento uruguayano ha approvato la legalizzazione della cannabis. In Europa, sulla base della decriminalizzazione del consumo personale nella gran parte dei paesi, si diffondono a macchia d’olio i Cannabis Social Club, dalla Spagna, al Belgio, alla Svizzera e altri.
Dunque il cambiamento c’è già, il problema è come si ripercuoterà a livello internazionale. Sarà un dibattito vero, dove finalmente si confronteranno opzioni diverse di politica delle droghe? Oppure prevarrà il conservatorismo degli stati che neppure vogliono sentire le parole “cambiamento” e “confronto”? (continua)

Vai al dossier “Verso Ungass 2016

Fonte: Fuoriluogo

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Sondaggio PLUS: useresti la PrEP ?

 

prepUseresti la PrEP (Profilassi Pre Esposizione)?
QUESTO QUESTIONARIO E’ RIVOLTO AGLI UOMINI GAY E AGLI ALTRI MASCHI CHE FANNO SESSO CON ALTRI MASCHI.
Per favore, prima di compilare il questionario, leggi attentamente quanto segue:
Alcune ricerche hanno dimostrato che un farmaco anti-HIV chiamato Truvada assunto quotidianamente da una persona HIV negativa può ridurre significativamente la probabilità che contragga il virus se ha un rapporto sessuale non protetto con un partner che ha l’HIV. Il farmaco potrebbe in futuro essere offerto a determinate persone (ad esempio, chi ha spesso rapporti non protetti con partner diversi, chi è in una relazione stabile con una persona che ha l’HIV, chi ha impossibilità o difficoltà a usare il preservativo, ecc.); chi dovesse in futuro decidere di assumere questo farmaco, dovrebbe effettuare controlli a scadenze regolari (presumibilmente ogni tre mesi). Il farmaco in questione è generalmente ben tollerato ma può avere degli effetti collaterali (i più comuni sono mal di testa, vertigini, diarrea, vomito, nausea).
NOTA BENE: IL TRUVADA NON È ANCORA DISPONIBILE IN ITALIA PER LA PREVENZIONE DELL’INFEZIONE DA HIV (PrEP )

Compila il questionario

Fonte: PLUS Onlus

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